#piccolastoria

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la grammatica di un finale

“È meglio così. Credimi.”

“Si. Forse. Non so.”

Si salutarono cordiali, senza un abbraccio, senza sorridere. Lui uscì e non pioveva. Lei rimase al suo posto nell’angolo defilato, a guardare come ipnotizzata, attraverso la vetrina, il grigiore della strada.

Fuori, il pomeriggio si faceva scuro. Passavano auto con i fari accesi. Gente nel locale? Poca.

Sola, disorientata, non le veniva in mente dove andare.

“Come si fa a vivere così lontano dal mare?” Ecco. A questo pensò.

la casa al mare

Le otto. Ora tiepida, settembre mite.

Nell’aria aleggiava un odore di alghe e umidità marina. Non faceva neanche un pizzico di freddo e il cielo era terso.

Subito, oltre la strada, oltre lo scoglio e la linea blu dell’orizzonte, oltre le nuvole lontane e ancora più in là, nel passato perduto per sempre, senza alcuno sforzo di memoria, riaffiorarono dalla schiuma delle onde scene dell’infanzia.

Dimenticare? che roba è?

Anche allora il mare era lì a ridosso della ringhiera, anche allora i sassi si susseguivano fino ad arrivare a mare, come piccole tartarughine appena schiuse.

I ricordi di quei giorni spensierati tornavano impetuosi e disordinati come la corsa di noi bambini sulla spiaggia. Allegria. Allora come ora.


Le otto e mezzo. Le prime ombre, settembre mite.

No che non bisogna rinunciare all’allegria.

Ed ecco il caffè. Servito in una grossa tazza blu, come lo bevevano a Parigi negli anni 60 i poeti e i filosofi.

Ne bevo un sorso. La temperatura è giusta. Con un altro sorso vuoto un terzo della tazza e trattengo in bocca il caffè, lasciando che sprigioni la sua magia.

Lo mando giù, e tutti i pensieri aggrovigliati si dipanano.


“Com’è il caffè?” Chiede la cameriera.

“Te lo dirò quando mi sveglio”.

Andare: infinito, presente.

Non ho mai sopportato la luce di quel neon in cucina. Eppure siamo entrambi lì, seduti con un calice di vino in mano. Ultimo suono quello dei bicchieri che si riempiono. Ultima parola: nessuna.

La finestra sbatte. Prende il calice e va di là. Resto solo.

Con il bicchiere in mano mi alzo. Mi incammino verso la porta. La supero. Senza pensarci procedo oltre le scale. Il portone. La strada. Le case dei vicini. Di là, via. Lontano verso la città. Oltre la città. Scompaio.


Andarsene è una tentazione, un sollievo. Una muta, non violenta, ribellione. È un tradimento. È un rischio, un salto nel vuoto. Andarsene è un ode alla fragilità e alla forza di ogni essere vivente, che sia uomo, animale, pianta.

Andarsene è una storia d’amore.

compagni di corsa

Ogni giorno, durante la corsa mattutina, incontro un anziano signore anche lui impegnato nella sua camminata sportiva. Ci incrociamo nel tratto di strada che attraversa i giardini.

Io, con la mia andatura veloce, il mio abbigliamento termico, il monitoraggio cardiaco e GPS.

Lui, con la sua comoda tuta in acetato bicolore, un passo caparbio aiutato da ampi movimenti alternati delle braccia e con la serenità di chi conosce bene il ritmo del proprio cuore e la strada di casa.

Ormai ci riconosciamo da lontano.

Lui mi vede e accelera il passo, come a voler avvicinarsi il più velocemente possibile al sogno della mia età. Io invece rallento per dimezzare le distanze tra le nostre vite.

Al momento dell’incrocio lui sorride sempre. Ho imparato a farlo pure io.

Alza il braccio sinistro con la mano aperta in segno di saluto. Come si fa tra amici, coetanei, sportivi di pari livello.

Nella mano destra tiene invece stretto in pugno un mazzolino di fiori di campo, sempre diversi, piccoli, coloratissimi, forse felici di essere stati raccolti.

Chissà a cosa o a chi saranno destinati.

Onoreranno una foto custodita in casa, renderanno più bello il tavolo in cucina o semplicemente gli faranno colorata compagnia durante il tragitto.

Ci allontaniamo ognuno verso la nostra direzione.


Da qualche tempo ho imparato a fermarmi e guardalo mentre si allontana con la sua andatura marziale, incerta e dignitosa, con il suo mazzolino profumato e la sua vita stretta salda tra le dita.

la storia raccontata cento volte

Ho di nuovo bisogno di te.

Ancora. Si, ancora.

Evidentemente la nostra vita non procede in linea retta ma in modo circolare, è questo il motivo per cui ricadiamo sempre nelle stesse buche.

È il passato che ritorna. È l’abbraccio consolatorio che non sa o non vuole andare via.


Giorno. Stazione. Treno. Stavi per salire. Mi hai dato ancora un abbraccio. Quello. Cerca di stare bene. Hai detto. Lo prometto. Ho risposto.

E sono stato bene.

l’ultimo vagone

Lei lo vide allontanarsi affacciato al finestrino. Ciao, occhi neri. Ciao sorriso affascinante. Lo amava tanto, ma tanto tanto.

Seguirono altri vagoni con volti affacciati e altre mani che salutavano.

In pochi minuti la banchina si svuotò, le mani si abbassarono, i corpi si girarono all’unisono guardando immobili verso l’uscita. E lei con loro.

Il silenzio durò pochi attimi. Poi il cuore, i muscoli, il sangue e la vita decisero che poteva bastare.

E se ne andò.

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