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Il 18 marzo del 37 d.C. Gaio Giulio Cesare Augusto Germanico, meglio noto come Caligola, divenne Imperatore.

Le circostanze della sua ascesa al principato ci vengono tramandate soprattutto da Svetonio e da Cassio Dione, i quali insistono sulle volontà testamentarie del predecessore ed esaltano l'ascendenza su tutto il popolo romano.

“Tiberio, tuttavia, aveva lasciato in eredità l'impero anche a suo nipote Tiberio (Gemello, figlio di Druso Minore e di Livilla), ma Gaio, dopo aver inviato in Senato il testamento dell'Imperatore per mezzo di Macrone, lo fece invalidare dai consoli, sulla base del fatto che era stato compilato da una persona che non era in possesso delle sue facoltà mentali, visto che aveva permesso a un fanciullo, al quale non era neppure concesso entrare in Senato, di governare su di loro” (Cassio Dione, LIX, 1-2).

“Ottenuto così il potere, esaudì i voti del popolo romano, principe desideratissimo dalla maggior parte dei provinciali e dei soldati, che in molti lo avevano conosciuto da bambino, ma anche da tutta la plebe urbana memore del padre Germanico. […] Pertanto, quando lasciò Miseno, sebbene stesse accompagnando il feretro di Tiberio, vestito a lutto, avanzò in mezzo a una fittissima ed entusiasta folla di gente che gli andava incontro. […] Gli vennero conferiti potere e autorità assoluti, in un tale tripudio popolare che nei tre mesi successivi si dice che furono immolati oltre 160 mila animali. A quell'immenso amore dei cittadini, si aggiunse anche un notevole favore degli stranieri. Atrabano, re dei Parti, chiese di essergli amico e venne a colloquio con il legato consolare e, quando ebbe attraversato l'Eufrate, rese ossequio alle aquile e alle insegne romane e all'effige dei Cesari” (Svetonio, Caligola, XIII; XIV).


(I passi sono tratti da: Cassio Dione, Storia Romana (a cura di Marta Sordi), BUR, Milano 2014; Svetonio, Vita dei Cesari (a cura di Francesco Casorati), Newton Compton, Roma 2010.

(Nell'immagine busto di Caligola, conservato presso il Metropolitan Museum of Art di New York).

VOCI DI ROMA

ROMANI VS ALANI

“Alla testa dell'intera armata siano gli esploratori a cavallo, disposti su due colonne e con il loro proprio comandante. Dopo di essi gli arcieri Petrei a cavallo e a capo siano i decurioni; dopo di essi si dispongano quelli dell'ala di nome Auriani. Si dispongano insieme ad essi quelli della quarta coorte dei Rezi […]. Dopo di essi i cavalieri Celti, anch'essi su due colonne, sotto il comando di un centurione, lo stesso che all'accampamento.

Dopo di essi si dispongano i fanti, con le insegne levate davanti a loro, sia gli Italici sia i Cirenei presenti […], dopo di essi vadano i fanti Bosporani e poi i Numidi. La formazione abbia la larghezza di quattro opliti. Quanti fra essi sono arcieri vadano davanti. I rispettivi cavalieri guardino i fianchi. Dietro vadano i cavalieri scelti, dopo di questi i cavalieri della falange, poi le catapulte e quindi l'insegna della quindicesima falange (Legio XV Apollinaris) ed attorno ad essa il comandante, il comandante in seconda e i tribuni […]. Dopo essa si disponga il contingente alleato: quelli della Piccola Armenia, gli opliti dei Trapezunzi e i Colchi, poi i fanti Apuli […], dopo di essi seguano le salmerie e facciano da retroguardia l'ala dei Geti […].

Sia questo l'ordine di marcia e una volta giunti al luogo designato l'intero esercito si disponga in modo che la cavalleria formi un quadrato […]”.

(La descrizione continua con la lunga esposizione di tutti i componenti dello schieramento in ordine di battaglia, concludendosi con le possibili tattiche nel caso di un attacco nemico frontale o sui fianchi).

✍️ Arriano, Schieramento contro gli Alani, 1-11.

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L'11 marzo del 222 d.C. veniva assassinato l'Imperatore Sesto Vario Avito Bassiano, meglio noto col nome di Elagabalo.

Le circostanze della sua morte ci vengono narrate da Cassio Dione e soprattutto dalla Historia Augusta, fonte sempre prodiga di dettagli, sebbene Erodiano ci racconti come si arrivò a prendere la decisione di eliminare questo imperatore ormai avverso al popolo, al Senato e ai pretoriani.

Oltre al malgoverno esercitato fino a quel momento e ai comportamenti privati e religiosi del giovane imperatore, malvisti ai più, la situazione precipitò quando nel 221 d.C. Giulia Mesa, sua nonna, convinse il nipote a elevare al rango di Cesare il cugino Alessiano, il futuro Alessandro Severo, così che potesse dedicarsi soltanto all'aspetto religioso (Erodiano V, 7).

Col passare del tempo i rapporti tra i due si deteriorarono poiché Alessandro iniziò a godere dell'appoggio dei soldati, del Senato e del popolo. L'Imperatore cercò anche di farlo uccidere e, addirittura, di far annullare dal Senato la sua elezione a Cesare, non riuscendo nel suo intento e rischiando la propria vita (Erodiano V, 8).

In un clima ormai di guerra fredda l'Imperatore mise in giro la voce che il cugino era moribondo per vedere la reazione dei pretoriani, i quali, alla notizia, si ribellarono, pretendendo che entrambi si presentassero presso i castra pretoria. Ciò avvenne l'11 marzo del 222 e ad accompagnarli vi era anche Giulia Soemia, madre del giovane Imperatore; al loro arrivo i pretoriani iniziarono ad acclamare il loro favorito Alessandro, ignorando Elaogabalo, che ordinò allora l'arresto e l'esecuzione sommaria di coloro che sostenevano il cugino, con l'accusa di ribellione (Erodiano V, 8).

In risposta i pretoriani assalirono l'imperatore e poi sua madre, come ci viene appunto tramandato dalla Historia Augusta:


“[…] Dopo di che fu assalito lui pure e ucciso in una latrina in cui aveva cercato di rifugiarsi. Fu poi trascinato per le vie. Colmo di disonore, i soldati gettarono il cadavere in una fogna. Poiché però il caso volle che la cloaca risultasse troppo stretta per ricevere il corpo, lo buttarono giù dal ponte Emilio nel Tevere, con un peso legato addosso perché non riuscisse a galleggiare, di modo che non potesse aver mai a ricevere sepoltura. Prima di essere precipitato nel Tevere, il suo cadavere fu anche trascinato attraverso il Circo. […] E fu il solo fra tutti i principi ad essere trascinato, buttato in una cloaca ed infine precipitato nel Tevere”.

Riportiamo anche la testimonianza di Cassio Dione, il quale aggiunge la sorte toccata alla madre:


“Fece un tentativo di fuggire, e sarebbe riuscito a raggiungere un qualche luogo nascosto in una latrina, se non fosse stato scoperto e ucciso, all'età di diciotto anni. La madre, che lo abbracciò e lo strinse fortemente, morì con lui; le loro teste vennero staccate dal busto e i loro corpi, dopo essere stati denudati, furono prima trascinati per tutta la città e poi il corpo della madre fu gettato in un posto o in un altro, mentre il suo venne gettato nel fiume”.


(Il passo dell'Historia Augusta è tratto da: Scrittori dell'Historia Augusta, a cura di Leopoldo Agnes, UTET, Torino 1960;

Il passo di Cassio Dione è tratto da: Storia Romana, LXXX, 20, a cura di Alessandro Galimberti, BUR, Milano 2018.)


(Nell'immagine testa di Elagabalo, oggi conservata presso i Musei Capitolini di Roma).

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Il 19 febbraio del 197 d.C. Settimio Severo sconfiggeva il rivale Clodio Albino nella battaglia di Lugdunum, odierna Lione.

Stando ai resoconti degli storici antichi, ed in particolare di Cassio Dione, le due armate che si scontrarono erano composte da 150.000 soldati complessivi, con Clodio Albino che poteva disporre di circa 60.000 legionari e Settimio Severo che contava quindi su circa 90.000 uomini, in massima parte provenienti dal limes renano e danubiano.

“Da entrambe le parti c'erano centocinquantamila soldati ed erano presenti allo scontro ambedue i comandanti. Albino era superiore per nobiltà e per la formazione ricevuta, mentre il suo rivale prevaleva nella scienza militare e nell'arte di condurre un esercito” (Cassio Dione, Storia Romana, LXXVI, 6).


La battaglia ebbe inizio con una mossa a sorpresa di Severo che avanzò con l'ala destra per poi ripiegare, inseguito dalla cavalleria sarmata di Albino, attirandola in un'imboscata e distruggendola completamente. Dopo questo primo successo il sovrano guidò l'avanzata dell'ala sinistra, ma l'attacco non ebbe esito positivo.


Dopo due giorni di combattimenti incerti Giulio Leto, il comandante della cavalleria severiana, attaccò i fianchi delle legioni avversarie, sfondandone le linee. Sentendosi perduto, Clodio Albino preferì correre al proprio accampamento, per poi suicidarsi.

“Durante un combattimento in cui molti soldati di Clodio erano caduti, molti si erano dati alla fuga ed altri arresi, egli fuggì e poi, secondo alcuni, cercò di uccidersi con le proprie mani o, secondo altri, si fece trafiggere da un servo” (Historia Augusta, Vita di Clodio Albino, IX).


(Nell'immagine: rappresentazione contemporanea di Settimio Severo durante la battaglia di Lugdunum, tratta da Ancient Warfare Magazine)


(Il passo di Cassio Dione è tratto da: Cassio Dione, Storia Romana volume IX, (a cura di Alessandro Galimberti), BUR, Milano 2018.

Il passo dell'Historia Augusta è tratto da: Scrittori dell'Historia Augusta, (a cura di Leopoldo Agnes), UTET, Torino 1960).

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Il 12 febbraio del 41 d.C. nasceva a Roma Tiberio Claudio Cesare Germanico, meglio noto con il nome di Britannico, secondo figlio che l'imperatore Claudio ebbe dalla terza moglie Messalina.

Risulta molto difficile ricostruire la biografia di Britannico, a causa della carenza documentaria. La sua nascita è ricordata brevemente da Svetonio:

Ebbe dei figli tre delle sue mogli: da Urgulanilla, Druso e Claudia; da Petina Antonia; da Messalina Ottavia e un figlio al quale diede dapprima il nome di Germanico e poi quello di Britannico" (Svetonio, Vite dei Cesari, Claudio, 27).

Il bambino prese questo appellativo poichè due anni dopo la sua nascita, nel 43 d.C. fu conquistata la Britannia e il Senato offrì a Claudio il titolo onorifico “Britannico”; l'imperatore rifiutò di adottarlo ma lo concesse al figlio.

Il sovrano fu molto legato al nuovo figlio, come testimonia lo stesso Svetonio: “In quanto a Britannio, che era nato nel ventesimo giorno del suo principato, durante il suo secondo consolato, lo raccomandò sempre, fin da bambino, ai soldati, presentandolo a loro, riuniti a parlamento, tenuto nel cavo delle mani. E lo raccomandava anche al popolo, mettendoselo sulle ginocchia, o seduto davanti a lui durante gli spettacoli; e faceva continuamente i più fervidi voti per quel bambino, tra le acclamazioni della folla” (Svetonio, Ivi).


(Nell'immagine: stutua di Britannico da bambino, conservata nel Museo del Louvre a Parigi)


(I passi di Svetonio sono tratti da: Gaio Svetonio Tranquillo, I dodici Cesari, (A cura di Felice Dessì), BUR, Milano 1968).

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Il 12 maggio del 113 d.C. a Roma veniva inagurata la colonna Traiana.

La grandiosa colonna coclide celebrava la conquista della Dacia da parte dell'imperatore Traiano, avvenuta pochi anni prima, nel 106 d.C., dopo due sanguinose guerre. La colonna è del tipo “centenario” ed era alta 88 piedi romani, che corrispondono a 29,78 metri, che diventano 39,86 includendo anche il piedistallo alla base e la statua dell'imperatore posta alla sommità. Era posta alla termine del foro di Traiano, affiancata dalle due biblioteche fatte erigere dallo stesso imperatore.

Lungo la colonna si sviluppano 200 metri di magnifici fregi istoriati, che si arrotolano intorno al fusto per 23 volte e raffigurano 150 scene, animate da circa 2500 figure. L'altezza del fregio cresce con l'altezza, da 0,89 a 1,25 metri, in maniera da correggere la deformazione prospettica verso l'alto e far credere allo spettatore che le figure abbiano la stessa grandezza.

L'imperatore Traiano è rappresentato ben 59 volte nei rilievi della Colonna. La sua rappresentazione è però sempre realistica ed esprime, con gesti misurati, con sguardi fissi e composizioni ben architettate, la sua attitudine al comando, la sua saggezza, la sua abilità militare. Non possiede perciò capacità sovrumane o attributi adulatori, la sua è una rappresentazione dalla quale scaturisce oggettivamente la levatura morale.

Come scrive Cassio Dione, alla sua morte, le ceneri di Traiano furono riposte in un'urna d'oro e tumulate all'interno del basamento della colonna, primo imperatore sepolto all'interno del perimetro cittadino.

(In foto: denario coniato nel 114 d.C. che presenta sul dritto il busto laureato dell'imperatore e sul verso la colonna, da notare in particolare la rappresentazione della statua che in età romana ornava la sommità del monumento).

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Il 10 maggio del 238 d.C. moriva ad Aquileia Gaio Giulio Vero Massimino, meglio noto come Massimino il Trace.

Nel 235 d.C. alla morte di Alessandro Severo, fu proclamato imperatore delle legioni renane di cui era il comandante, primo barbaro a raggiungere la porpora imperiale. Egli ottenne fin da subito grandi consensi presso i soldati, grazie alle sue vittoriose campagne contro gli Alamanni. Ma divenne ben presto inviso al senato, non solo perché non faceva parte dell'ordine senatorio, ma soprattutto a causa della sua decisione di imporre una fortissima pressione fiscale per far fronte alla grave crisi militare in cui versava l'impero. Fu quindi dichiarato nemico pubblico e i senatori nominarono imperatore in sua vece l'anziano Gordiano, che si associò il figlio.

Costoro furono presto eliminati dai soldati fedeli a Massimino e allora il senato proclamò imperatori Balbino e Pupieno e Massimino decise allora di marciare contro Roma. Decise prima di assediare Aquileia, ma le operazioni si rivelarono più lunghe e complesse del previsto. “Allora Massimino, attribuendo l'insuccesso alla ignavia dei suoi, fece uccidere, proprio in un momento così inopportuno, tutti i capi dell'esercito, provocando maggior malcontento” (Historia Augusta, Vita di Massimino, XXIII).

“Mancavano i viveri, perché un ordine del senato pervenuto a tutte le province e i comandi aveva tagliato ogni possibilità di rifornimento. L'assediante si trovava nelle condizioni di un assediato. Frattanto si diffondeva la notizia che tutte le regioni si erano dichiarate ostili a lui. Allora i soldati […] in un momento di tregua si recarono, verso mezzogiorno, alla tenda in cui i due Massimini riposavano, e li uccisero, mostrando poi le loro teste conficcate su pali agli abitanti di Aquileia”. (Historia Augusta, Ivi).

Così morì il primo degli imperatori che regnarono durante la cosiddetta “anarchia militare”, che si concluderà solo con l'avvento di Diocleziano.

I passi dell'Historia Augusta sono tratti da: Scrittori dell'Historia Augusta (a cura di Leopoldo Agnes), UTET, Torino 1960.

(In foto: busto di Massimino il Trace, conservato nei Musei Capitolini di Roma)

VOCI DI ROMA

I BAGAUDI: DISAGIO SOCIALE IN GALLIA (IV E V SEC. D.C.)

“Ed ora dovrei parlare dei Bagaudi, che spogliati, perseguitati, trucidati da giudici malvagi, dopo aver perso la libertà romana persero anche l'onore del nome romano. Si imputa ad essi la propria infelicità e li chiamiamo ribelli, perduti, essi che noi appunto spingemmo ad essere criminali.

Per quali altri motivi infatti diventarono Bagaudi, se non per le nostre ingiustizie, per la disonestà dei giudici, per le prescrizioni e le rapine di coloro che volsero a entrare del proprio guadagno il pretesto della pubblica esazione dei tributi e trasformarono in proprio bottino le intimazioni tributarie? Che a somiglianza di belve inumane non governarono le persone a loro affidate, ma le divorarono e si pascevano non soltanto delle spoglie degli uomini, come sono soliti i più briganti, ma anche dello sbranamento e per così dire del loro sangue stesso?

E così accadde che gli uomini strangolati dai giudici e governanti cominciarono ad essere come barbari, perché non si permetteva loro di essere Romani: si rassegnarono ad essere quel che non erano e furono costretti a difendere almeno la vita, perché vedevano di aver perso del tutto la libertà”.

✍️ Salviano di Marsiglia, Sul governo di Dio, V, 6 (a cura di S. Cola), Città Nuova, Roma 1994.

VOCI DI ROMA

CONTRO LA REGALITA’ TARDO ANTICA

“Voglio dire che nulla in altri tempi ha così minato l'impero romano come ore il teatrale apparato per la persona fisica del basiléus che anche per voi [Arcadio] si appresta, come se si officiasse un culto, in segreto, perché poi essa venga esposta al pubblico alla maniera barbarica […].

Codesta maestosità vostra, unita al timore di assimilarvi ai mortali, ove mai divenisse abituale spettacolo al pubblico, vi tiene rinchiusi, volontariamente segregati […]. Sino a quando disdegnerete la misura umana non raggiungerete neppure la perfezione umana”.

✍️ Sinesio, Orazione prima sulla regalità, 14 (a cura di Carlotta Amande e Luciano Canfora), Sellerio Editore, Palermo 2000.


(Nell'immagine: il Missorio di Teodosio, un piatto decorato di largizione, prodotto nel 388 o 393 d.C. a Costantinopoli per i decennalia o i quindecennalia di Teodosio I, raffigurato in trono dinanzi a un tribunal, sormontato da timpani triangolari e aperto in un arco al di sopra della figura imperiale e affiancato da Valentiniano II (od Onorio) e Arcadio, mentre consegna i codicilla a un alto funzionario. Nella zona inferiore del disco è raffigurata la Terra, sdraiata, con cornucopia e il volto di Teodosio I con diadema, circondato dal nimbo, è giovanile. L'opera riunisce in sé tutte le componenti della regalità tardo antica: la tradizione del culto imperiale, la maestà della persona imperiale che è esaltata, la prosperità e l'universalità del regno e l'unità della famiglia imperiale. Arco e nimbo fanno riferimento alla volta cosmica e dunque al carattere semi-divino del personaggio che sovrasta).

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Il 12 aprile del 238 d.C. morirono Gordiano II, sul campo di battaglia e suo padre Gordiano I, suicidatosi dopo aver appreso della morte del figlio.

Padre e figlio divennero imperatori per volere dei grandi proprietari terrieri, dei soldati ausiliari e dei cittadini della provincia d'Africa, di cui Gordiano I era proconsole, subito dopo che il Senato dichiarò Massimino il Trace hostis publicus. Il padre si associò immediatamente il figlio, mentre il nipote venne nominato Cesare (il futuro imperatore Gordiano III dal 238 al 244 d.C.) e iniziò ad attuare un programma di risanamento delle finanze di Roma, cercando di ingraziarsi il popolo e i soldati e ricevendo l'appoggio di quasi tutte le province romane.

Nonostante l'appoggio ottenuto in tutto l'Impero e anche dal popolo, il loro regno durò poco meno di un mese, poiché Capeliano, il governatore di Numidia (o meglio, legatus Augusti pro praetore), era un deciso oppositore di Gordiano I per due ragioni: ebbe una disputa legale con lui (Erodiano, VII, 9, 2) ed era sostenitore di Massimino.

L'unico scontro decisivo fu la battaglia di Cartagine, combattuta tra una legione di tutto rispetto quale era la III Augusta e reparti ausiliari e cittadini raccogliticci: “Capeliano era alla testa di una poderosa armata di giovani vigorosi e ben armati, oltre che addestrati alla guerra nelle lotte sostenute contro i barbari […] i Cartaginesi erano superiori di numero, ma erano anche una turba indisciplinata e con poco addestramento militare. A peggiorare la situazione mancavano armi ed equipaggiamento adeguati” (Erodiano, VII, 9, 6).

“[…] sbaragliati dalla cavalleria numida, i pochi superstiti gettarono a terra le armi fuggendo verso la città. Molti vennero calpestati nella confusione che seguì, incalzati fin sotto le mura e trucidati davanti alle loro famiglie. Furono così tanti i morti che il corpo di Gordiano non fu ritrovato. Quando Gordiano I seppe che Capeliano era entrato in città, l'anziano imperatore si suicidò, mentre il vincitore mise a morte tutti i loro sostenitori confiscandone i beni” (Erodiano, VII, 9, 4-10).


(In foto sesterzio di Gordiano I, sul dritto: IMP(ERATOR) CAES(AR) M(ARCUS) ANT(ONIUS) GORDIANUS AFR(CANUS) AUG(USTUS) e busto laureato di Gordiano verso destra; sul rovescio: VICTORIA AUGUSTORUM e la vittoria drappeggiata con una corona nella mano destra e una palma nella sinistra. Questa moneta riporta quindi il cognomen Africanus, adottato dalla presa del potere e al rovescio AVGG, indicando quindi il regno dei due Augusti).


(I passi di Erodiano sono tratti dalla sua Storia dell'Impero Romano dopo Marco Aurelio, VII, 9, 2-10 (a cura di Filippo Cassola), Einaudi, Torino 2017).

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Il 9 aprile del 193 d.C. Settimio Severo veniva proclamato imperatore, primo sovrano di origine africana della storia romana.

Le circostanze che gli permisero di prendere il potere sono alquanto singolari: dopo l'assassinio di Commodo, il Senato aveva nominato imperatore Pertinace, che fu però presto eliminato dai Pretoriani e sostituito da Didio Giuliano, che acquistò la carica grazie alle sue grandissime disponibilità finanziarie. Ma le legioni non lo accettarono e si ribellarono, come riferisce molto precisamente Cassio Dione: “a quel tempo c'erano tre uomini, ognuno dei quali al comando di tre legioni, Severo, Nigro ed Albino. Quest'ultimo era il governatore della Britannia, Severo della Pannonia, Nigro della Siria” (Cassio Dione, LXXIII, 14).

“Dei tre generali che ho poc'anzi menzionato Severo era il più scaltro: avendo previsto che in seguito alla deposizione di Giuliano loro tre si sarebbero scontrati ed avrebbero combattuto per impossessarsi del potere supremo, decise di guardagnarsi l'appoggio […] di Albino nominadolo Cesare. […] Albino, nell'aspettativa di dividere il potere con Severo, rimase dov'era, mentre Severo si mosse alla volta di Roma”. (Cassio Dione, Ivi, 15).

Il particolareggiato resoconto Dioneo prosegue riferendo la reazione di Didio Giuliano: “Quando venne a conoscenza di questi fatti attraverso l'autorità del Senato, dichiarò Severo nemico pubblico e si preparò a combatterlo […] mandò contro Severo alcuni uomini col compito di ucciderlo a tradimento: questi, invece, dopo essere giunto in Italia, occupò Ravenna senza combattere, mentre gli uomini che Giuliano gli mandava incontro passavano dalla sua parte […] Allora Giuliano ci convocò [convocò i senatori, tra cui lo stesso Dione] e ci ordinò di decretare che Severo diventasse suo collega nell'impero. Ma i soldati, persuasi da una lettera di Severo del fatto che, se avessero consegnato gli uccisori di Pertinace e avessero garantito la pace, non sarebbe accaduto alcun male, arrestarono gli assassini di Pertinace. […] Condannammo allora a morte Giuliano, proclamammo Severo imperatore attribuimmo onori divini a Pertinace. (Cassio Dione, Ivi, 16-17)


(Nell'immagine: Busto di Settimio Severo conservato nel Museo Archeologico Nazionale di Napoli)

(I passi di Cassio Dione sono tratti da: Cassio Dione, Storia Romana, Volume Nono (a cura di A. Galimberti, A. Stroppa), BUR, Milano 2018.

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