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Il 18 marzo del 37 d.C. Gaio Giulio Cesare Augusto Germanico, meglio noto come Caligola, divenne Imperatore.

Le circostanze della sua ascesa al principato ci vengono tramandate soprattutto da Svetonio e da Cassio Dione, i quali insistono sulle volontà testamentarie del predecessore ed esaltano l'ascendenza su tutto il popolo romano.

“Tiberio, tuttavia, aveva lasciato in eredità l'impero anche a suo nipote Tiberio (Gemello, figlio di Druso Minore e di Livilla), ma Gaio, dopo aver inviato in Senato il testamento dell'Imperatore per mezzo di Macrone, lo fece invalidare dai consoli, sulla base del fatto che era stato compilato da una persona che non era in possesso delle sue facoltà mentali, visto che aveva permesso a un fanciullo, al quale non era neppure concesso entrare in Senato, di governare su di loro” (Cassio Dione, LIX, 1-2).

“Ottenuto così il potere, esaudì i voti del popolo romano, principe desideratissimo dalla maggior parte dei provinciali e dei soldati, che in molti lo avevano conosciuto da bambino, ma anche da tutta la plebe urbana memore del padre Germanico. […] Pertanto, quando lasciò Miseno, sebbene stesse accompagnando il feretro di Tiberio, vestito a lutto, avanzò in mezzo a una fittissima ed entusiasta folla di gente che gli andava incontro. […] Gli vennero conferiti potere e autorità assoluti, in un tale tripudio popolare che nei tre mesi successivi si dice che furono immolati oltre 160 mila animali. A quell'immenso amore dei cittadini, si aggiunse anche un notevole favore degli stranieri. Atrabano, re dei Parti, chiese di essergli amico e venne a colloquio con il legato consolare e, quando ebbe attraversato l'Eufrate, rese ossequio alle aquile e alle insegne romane e all'effige dei Cesari” (Svetonio, Caligola, XIII; XIV).


(I passi sono tratti da: Cassio Dione, Storia Romana (a cura di Marta Sordi), BUR, Milano 2014; Svetonio, Vita dei Cesari (a cura di Francesco Casorati), Newton Compton, Roma 2010.

(Nell'immagine busto di Caligola, conservato presso il Metropolitan Museum of Art di New York).

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L'11 marzo del 222 d.C. veniva assassinato l'Imperatore Sesto Vario Avito Bassiano, meglio noto col nome di Elagabalo.

Le circostanze della sua morte ci vengono narrate da Cassio Dione e soprattutto dalla Historia Augusta, fonte sempre prodiga di dettagli, sebbene Erodiano ci racconti come si arrivò a prendere la decisione di eliminare questo imperatore ormai avverso al popolo, al Senato e ai pretoriani.

Oltre al malgoverno esercitato fino a quel momento e ai comportamenti privati e religiosi del giovane imperatore, malvisti ai più, la situazione precipitò quando nel 221 d.C. Giulia Mesa, sua nonna, convinse il nipote a elevare al rango di Cesare il cugino Alessiano, il futuro Alessandro Severo, così che potesse dedicarsi soltanto all'aspetto religioso (Erodiano V, 7).

Col passare del tempo i rapporti tra i due si deteriorarono poiché Alessandro iniziò a godere dell'appoggio dei soldati, del Senato e del popolo. L'Imperatore cercò anche di farlo uccidere e, addirittura, di far annullare dal Senato la sua elezione a Cesare, non riuscendo nel suo intento e rischiando la propria vita (Erodiano V, 8).

In un clima ormai di guerra fredda l'Imperatore mise in giro la voce che il cugino era moribondo per vedere la reazione dei pretoriani, i quali, alla notizia, si ribellarono, pretendendo che entrambi si presentassero presso i castra pretoria. Ciò avvenne l'11 marzo del 222 e ad accompagnarli vi era anche Giulia Soemia, madre del giovane Imperatore; al loro arrivo i pretoriani iniziarono ad acclamare il loro favorito Alessandro, ignorando Elaogabalo, che ordinò allora l'arresto e l'esecuzione sommaria di coloro che sostenevano il cugino, con l'accusa di ribellione (Erodiano V, 8).

In risposta i pretoriani assalirono l'imperatore e poi sua madre, come ci viene appunto tramandato dalla Historia Augusta:


“[…] Dopo di che fu assalito lui pure e ucciso in una latrina in cui aveva cercato di rifugiarsi. Fu poi trascinato per le vie. Colmo di disonore, i soldati gettarono il cadavere in una fogna. Poiché però il caso volle che la cloaca risultasse troppo stretta per ricevere il corpo, lo buttarono giù dal ponte Emilio nel Tevere, con un peso legato addosso perché non riuscisse a galleggiare, di modo che non potesse aver mai a ricevere sepoltura. Prima di essere precipitato nel Tevere, il suo cadavere fu anche trascinato attraverso il Circo. […] E fu il solo fra tutti i principi ad essere trascinato, buttato in una cloaca ed infine precipitato nel Tevere”.

Riportiamo anche la testimonianza di Cassio Dione, il quale aggiunge la sorte toccata alla madre:


“Fece un tentativo di fuggire, e sarebbe riuscito a raggiungere un qualche luogo nascosto in una latrina, se non fosse stato scoperto e ucciso, all'età di diciotto anni. La madre, che lo abbracciò e lo strinse fortemente, morì con lui; le loro teste vennero staccate dal busto e i loro corpi, dopo essere stati denudati, furono prima trascinati per tutta la città e poi il corpo della madre fu gettato in un posto o in un altro, mentre il suo venne gettato nel fiume”.


(Il passo dell'Historia Augusta è tratto da: Scrittori dell'Historia Augusta, a cura di Leopoldo Agnes, UTET, Torino 1960;

Il passo di Cassio Dione è tratto da: Storia Romana, LXXX, 20, a cura di Alessandro Galimberti, BUR, Milano 2018.)


(Nell'immagine testa di Elagabalo, oggi conservata presso i Musei Capitolini di Roma).

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Il 19 febbraio del 197 d.C. Settimio Severo sconfiggeva il rivale Clodio Albino nella battaglia di Lugdunum, odierna Lione.

Stando ai resoconti degli storici antichi, ed in particolare di Cassio Dione, le due armate che si scontrarono erano composte da 150.000 soldati complessivi, con Clodio Albino che poteva disporre di circa 60.000 legionari e Settimio Severo che contava quindi su circa 90.000 uomini, in massima parte provenienti dal limes renano e danubiano.

“Da entrambe le parti c'erano centocinquantamila soldati ed erano presenti allo scontro ambedue i comandanti. Albino era superiore per nobiltà e per la formazione ricevuta, mentre il suo rivale prevaleva nella scienza militare e nell'arte di condurre un esercito” (Cassio Dione, Storia Romana, LXXVI, 6).


La battaglia ebbe inizio con una mossa a sorpresa di Severo che avanzò con l'ala destra per poi ripiegare, inseguito dalla cavalleria sarmata di Albino, attirandola in un'imboscata e distruggendola completamente. Dopo questo primo successo il sovrano guidò l'avanzata dell'ala sinistra, ma l'attacco non ebbe esito positivo.


Dopo due giorni di combattimenti incerti Giulio Leto, il comandante della cavalleria severiana, attaccò i fianchi delle legioni avversarie, sfondandone le linee. Sentendosi perduto, Clodio Albino preferì correre al proprio accampamento, per poi suicidarsi.

“Durante un combattimento in cui molti soldati di Clodio erano caduti, molti si erano dati alla fuga ed altri arresi, egli fuggì e poi, secondo alcuni, cercò di uccidersi con le proprie mani o, secondo altri, si fece trafiggere da un servo” (Historia Augusta, Vita di Clodio Albino, IX).


(Nell'immagine: rappresentazione contemporanea di Settimio Severo durante la battaglia di Lugdunum, tratta da Ancient Warfare Magazine)


(Il passo di Cassio Dione è tratto da: Cassio Dione, Storia Romana volume IX, (a cura di Alessandro Galimberti), BUR, Milano 2018.

Il passo dell'Historia Augusta è tratto da: Scrittori dell'Historia Augusta, (a cura di Leopoldo Agnes), UTET, Torino 1960).

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Il 12 febbraio del 41 d.C. nasceva a Roma Tiberio Claudio Cesare Germanico, meglio noto con il nome di Britannico, secondo figlio che l'imperatore Claudio ebbe dalla terza moglie Messalina.

Risulta molto difficile ricostruire la biografia di Britannico, a causa della carenza documentaria. La sua nascita è ricordata brevemente da Svetonio:

Ebbe dei figli tre delle sue mogli: da Urgulanilla, Druso e Claudia; da Petina Antonia; da Messalina Ottavia e un figlio al quale diede dapprima il nome di Germanico e poi quello di Britannico" (Svetonio, Vite dei Cesari, Claudio, 27).

Il bambino prese questo appellativo poichè due anni dopo la sua nascita, nel 43 d.C. fu conquistata la Britannia e il Senato offrì a Claudio il titolo onorifico “Britannico”; l'imperatore rifiutò di adottarlo ma lo concesse al figlio.

Il sovrano fu molto legato al nuovo figlio, come testimonia lo stesso Svetonio: “In quanto a Britannio, che era nato nel ventesimo giorno del suo principato, durante il suo secondo consolato, lo raccomandò sempre, fin da bambino, ai soldati, presentandolo a loro, riuniti a parlamento, tenuto nel cavo delle mani. E lo raccomandava anche al popolo, mettendoselo sulle ginocchia, o seduto davanti a lui durante gli spettacoli; e faceva continuamente i più fervidi voti per quel bambino, tra le acclamazioni della folla” (Svetonio, Ivi).


(Nell'immagine: stutua di Britannico da bambino, conservata nel Museo del Louvre a Parigi)


(I passi di Svetonio sono tratti da: Gaio Svetonio Tranquillo, I dodici Cesari, (A cura di Felice Dessì), BUR, Milano 1968).

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Il 20 gennaio del 225 nasceva a Roma Marco Antonio Gordiano Pio, meglio conosciuto con il nome di Gordiano III, che fu imperatore tra il 238 ed il 244 d.C.


Poche sono le fonti letterarie che riportano qualche dettaglio sulla biografia di questo sovrano e la più dettagliata (ma anche problematica) è la Vita dei Tre Gordiani, facente parte dell'Historia Augusta.


“Dopo la morte dei Gordiani il Senato romano, temendo vivamente la vendetta di Massimino, nominò Augusti Pupieno o Massimo e Clodio Balbino, ambedue consoli […] Contemporaneamente il popolo e l'esercito vollero che si desse il titolo di Cesare al giovane Gordiano, che aveva undici anni o tredici o al massimo sedici [In realtà la storiografia moderna ha appurato che il giovane aveva 14 anni]; lo portarono alla presenza del Senato, poi alla pubblica assemblea, lo rivestirono degli abiti imperiali e lo proclamarono Cesare.


Costui, secondo l'opinione comune sarebbe nato da una figlia di Gordiano il vecchio [versione confermata dagli storici odierni], mentre alcuni storici lo vogliono figlio del Gordiano secondo, morto in Africa. Nominato Cesare, continuò la sua eduzione presso la madre finchè, morti i Massimini e caduti Massimo e Balbino dopo due anni di impero durante una rivolta, ancor giovinetto fu proclamato Augusto [nel 238 d.C.]”. (Historia Augusta, Vita dei tre Gordiani, XXII)


(Nell'immagine: busto di Gordiano III coservato nel Museo Nazionale Romano di Palazzo Massimo a Roma)


(I passi dell'Historia Augusta sono tratti da: Scrittori della Storia Augusta, (a cura di Leopoldo Agnes), UTET, Torino 1960)

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Il 16 gennaio del 27 a.C., Gaio Giulio Cesare Ottaviano, ottiene dal senato il titolo di Augusto.

La notizia, raccontataci da Svetonio, si inserisce nel capitolo in cui l’autore sta descrivendo la giovinezza del futuro princeps ed è giusto riportare il passo integralmente, per mostrare un’altra curiosità poco nota su Ottaviano: il soprannome che ricevette da bambino.

“Da fanciullo gli avevano dato il soprannome di Turino, vuoi per ricordare la sua origine, vuoi perché nel territorio di Turi il padre Ottavio, poco tempo dopo la sua nascita, aveva sconfitto gli schiavi fuggitivi. Ho potuto constatare con certezza che Augusto venne chiamato Turino, perché ho posseduto una vecchia effige di bronzo che lo rappresenta fanciullo, con sopra scritto a lettere di ferro quasi cancellate, tale soprannome; ho regalato questa effige al nostro principe [ndr. l’imperatore Adriano], che la venera tra i suoi dei domestici. Anche Marco Antonio, per ingiuriarlo, nelle sue lettere lo chiama spesso Turino, e Augusto meravigliandosi si accontenta di rispondere: “Non vedo perché debba considerare un insulto il mio primo nome”.

In seguito assunse il cognome di Gaio Cesare e poi quello di Augusto. Il primo, in base al testamento del prozio, l’altro perché, mentre alcuni senatori erano del parere di attribuirgli quello di Romolo, quasi fosse stato il secondo fondatore di Roma, prevalse la proposta di Munazio Planco di chiamarlo invece Augusto, non tanto per attribuirgli un nome che non era mai stato usato prima, quanto per il significato onorifico di quella parola. Infatti si chiamano “Augusti” i luoghi consacrati dalla religione, sia che questa parola derivi da aucta [accrescimento], sia che derivi da avium gestu o da gustu [parole usate per indicare i presagi che gli uccelli danno con il loro volo e il loro cibarsi], come ci ricorda questo verso di Ennio:

“Dopo che Roma fu eretta con inclito presagio Augusto”.

(Svetonio, Vite dei Cesari, Augusto, VII)


(Nell’immagine: Busto di Augusto conservato al Museo del Louvre di Parigi)


I passi sono tratti da: Svetonio, I dodici Cesari e gli uomini illustri, (a cura di Felice Dessì), BUR, Milano 1968).

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Il 15 dicembre del 37 d.C. nacque Lucio Domizio Enobarbo, meglio conosciuto come Nerone Claudio Cesare Augusto Germanico, titolatura che adottò quando divenne Imperatore nel 54 d.C..

Gli scrittori antichi, come Svetonio o Tacito, ci hanno tramandato un'immagine molto negativa di questo imperatore, in parte riabilitato da studi più recenti, e ne è prova già la descrizione della sua nascita da parte di Svetonio, il quale, all'inizio del libro VI, scrive:

“Ritengo necessario rendere noti molti membri di questa famiglia [gli Enobarbi della gens Domizia], perché sia più evidente che Nerone fu assolutamente degenere rispetto alle virtù dei suoi antenati e tuttavia riprodusse i vizi di ciascuno di essi, quasi trasmessi a lui geneticamente”.

Svetonio risulta ancora più esplicito riguardo il suo giudizio su Nerone poco più avanti:

“Nerone nacque ad Anzio nove mesi dopo la morte di Tiberio, il 15 dicembre poco prima dell'alba, sì che quasi fu toccato dai raggi del sole prima che dalla terra stessa.

Mentre in molti traevano vari segni infausti dalla sua nascita, fu di presagio anche la frase del padre Domizio che, mentre gli amici si congratulavano con lui, aveva affermato che «da lui e da Agrippina non era potuto nascere che qualcosa di abominevole e di pernicioso per tutti».”


(I passi sono tratti da Svetonio, Nero., 1, 6, traduzione a cura di Francesco Casorati, Newton Compton, Roma 2010).


(Nell'immagine busto di Nerone, conservato presso i Musei Capitolini a Roma).

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Il 7 dicembre del 43 a.C. trovò la morte Marco Tullio Cicerone, a causa della sua ostinata ostilità e i continui attacchi contro Marco Antonio.

Certamente a conoscenza del piano dei Cesaricidi, divenne subito dopo le idi di marzo uno dei personaggi di spicco della fazione degli ottimati, contrapponendosi ad Antonio, il quale volle riprendere e fare propri i progetti politici di Cesare. In questo contesto il giovanissimo Ottaviano diede al vecchio consolare l'illusione di poter essere manovrato e indotto a divenire uno strumento al servizio del Senato; mentre, viceversa, non aveva forse in mente fin dall'inizio che la vendetta del padre adottivo e soprattutto la personale ascesa verso il potere.

Dopo i noti fatti degli anni 44 e 43 a.C., in cui Antonio e Ottaviano si scontrarono, vi fu infine la spartizione dei domini di Roma tra i tre triumviri (Ottaviano, Antonio e Lepido) e gli stessi decisero di far tacere ogni residua opposizione interna e procurarsi anche i fondi necessari all'imminente campagna contro l'Oriente in mano agli assassini di Cesare (vd. Appiano, Le guerre civili, IV, 5-6, 8-11).

Fu così che fecero la loro comparsa le liste di proscrizione, forse tra le più atroci, che costarono la vita a 300 senatori e forse 2 mila equites, tra cui appunto il grande oratore e politico Cicerone.


“E dopo che, avendo trovato le porte chiuse a chiave, le ebbero sfondate, poiché Cicerone non si vedeva e quelli che stavano dentro affermavano di non sapere dove fosse, si dice che un ragazzo di nome Filologo, educato da Cicerone nelle lettere liberali e nelle scienze e liberto di suo fratello Quinto, abbia indicato al tribuno la lettiga che veniva trasportata verso il mare attraverso i viali alberati e ombrosi. Il tribuno dunque, avendo preso con sé pochi correva verso l'uscita, mentre Cicerone si accorse che Erennio avanzava di corsa attraverso i viali e ordinò ai servi di deporre lì la lettiga. Ed egli, come era solito, toccandosi le guance con la mano sinistra, impassibilmente rivolse lo sguardo ai sicari, ricoperto dal sudore e dalla capigliatura e disfatto nel volto dalle preoccupazioni, tanto che i più si coprirono il volto mentre Erennio lo uccideva. Fu ucciso mentre sporgeva il collo dalla lettiga, quando quello che trascorreva era il suo sessantaquattresimo anno. E, per ordine di Antonio, tagliarono la sua testa e le sue mani, con le quali aveva scritto le Filippiche”.


(Il passo è tratto da Plutarco, Vita di Cicerone, 48, 2-5, traduzione a cura di Antonio Traglia, UTET, Torino 2013).


(Nell'immagine busto di Cicerone, esposto presso i Musei Capitolini a Roma).

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www.antiquitatesromanae.com

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Nel calendario romano il 5 dicembre ricorreva la festa delle Faunalia, che si svolgeva non in città, ma nelle campagne. Le Faunalia venivano celebrate in onore di Fauno, una divinità italica oggetto di un culto antico, dio della fertilità, protettore degli animali, dei campi e delle selve.

In questa giornata i contadini sospendevano ogni attività lavorativa nei campi, sacrificavano a Fauno un capretto o una pecora e gli offrivano del vino, affinché proteggesse i boschi, il bestiame e le colture e bruciavano incenso sulle are. Queste informazioni ce le ha tramandate il poeta Orazio (Odi, III, 18), senza nascondere l'ironia degli occhi del cittadino nei confronti degli usi di campagna:

“Fauno, che corteggi le ninfe fuggenti,

cammina leggero sui campi

assolati della mia terra e vattene

senza fare del male ai piccoli del mio gregge, se a fine anno

ti viene offerto un capretto tenero

e non manca vino abbondante

alla coppa, compagna di Venere, e il vecchio altare

fuma di molto aroma.

Alla tua festa di dicembre il bestiame

gioca tutto sull’erba,

e assieme ai buoi oziosi il villaggio

fa festa sui prati; passeggia

il lupo in mezzo agli agnelli

audaci, ed il bosco riversa in tuo onore

le foglie sparse; il colono gode di battere

col piede tre volte la terra odiosa”.

Le caratteristiche principali di Fauno sono evidenziate dai suoi appellativi. Fauno è “Agrestis” (Ovidio, Fasti, II, 193), si aggira nelle foreste e nelle campagne, per apparire spesso ai contadini, che si diverte a spaventare, di giorno e anche di notte; è “Incubus” perché grava sul corpo di chi dorme e lo affligge con inquietanti visioni notturne; è “Inuus” (fecondatore), ovvero è perennemente intento ad accoppiarsi con donne e ninfe, ma anche con le femmine di tutti gli animali; è anche “Fatuus” o “Fatuclus” (Servio, Commento al'Eneide, VI, 775; VIII, 314) quindi dotato di parola, che utilizza per dar voce alla foresta e per pronunciare i suoi oracoli. Fauno si trova spesso associato a divinità a lui simili, come Silvano, dio delle selve e Luperco, una sua manifestazione sotto forma di lupo ed è anche identificato con un antico re del Lazio, nipote di Saturno, figlio di Pico e della ninfa Canente e padre di Latino, la cui figlia Lavinia sposò Enea (Virgilio, Eneide, VII; X).

Dalle sembianze umane, quando l'interpretazione ellenistica identificò Fauno con Pan, iniziò ad essere rappresentato con corna e zoccoli di capra, come il suo equivalente greco.


(Nell'immagine: Fauno in marmo rosso (II secolo d.C.), proveniente da Villa Adriana, ora conservato presso i Musei Capitolini a Roma).

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Nella notte tra il 26 e il 27 agosto del 55 a.C., Gaio Giulio Cesare portava per la prima volta nella storia le armate romane in Britannia. Nel De bello Gallico il generale romano riferisce che l’invasione era dettata dal fatto che i Galli durante la loro resistenza contro i romani, ricevettero l’aiuto delle tribù britanniche e “se non gli fosse stata sufficiente la stagione propizia per una guerra, giudicava che gli sarebbe stato di grande utilità se anche solo fosse andato nell’isola e avesse avuto nozione di quei popoli e avesse conosciuto le località, i porti e gli approdi, cose quasi tutte ignote ai Galli […] Perciò, quantunque avesse convocati presso di sé da ogni parte i mercanti, non poté saper nulla né della grandezza dell’isola, né delle popolazioni che la abitavano, né della loro esperienza in guerra, né delle loro istituzioni e neppure se vi fossero porti adatti ad accogliere un grande numero di navi da guerra”. (De Bello Gallico, IV, 20).

Vista la difficoltà nel reperire informazioni decise di inviare in avanscoperta il tribuno Gaio Voluseno, con il compito di esplorare la costa. Intanto i mercanti riferiscono ai britanni le azioni romane e “ varie città dell’isola gli mandarono ambasciatori, promettendogli di dare ostaggi e e di obbedire agli ordini del popolo romano. Egli li ascoltò e con cortesi promesse li esortò a mantenersi in questa loro decisione, indi li mandò in patria e insieme con essi inviò anche Commio, che egli dopo la vittoria sugli Atrebati aveva creato re, uomo che egli apprezzava per il suo valore e per il suo senno”. (IV, 21).

Raccolse quindi una flotta composta da ben 80 navi a Portus Itius (odierna Boulogne) e decise di trasportare nell’isola la settima e la decima legione; suddivise le navi da guerra di cui disponeva tra il questore, i legati e i prefetti. A esse si aggiungevano altre diciotto navi da carico che furono riservate alla cavalleria; lo stesso Cesare nei suoi commentari ci riferisce che “verso la mezzanotte salpò […] giunse con le prime navi in Britannia verso le dieci del mattino. Ivi vide schierato su tutti i colli l’esercito nemico in armi”. (IV, 23).

Dopo molte difficoltà, l’esercito romano riuscì a sbarcare in Kent, dove i Britanni tentarono di ostacolare lo sbarco dei romani, che però riuscirono a mettere in fuga i difensori; tuttavia mancò una definitiva vittoria, a causa del mancato arrivo della cavalleria romana. I nemici “mandarono ambasciatori a Cesare per chiedere la pace: promisero che avrebbero dato ostaggi e avrebbero eseguito tutti i suoi ordini. Insieme con questi ambasciatori giunse anche Commio” (IV, 27) che poco dopo essere sbarcato in Britannia era stato fatto prigioniero.

La pace fu però di brevissima durata poiché i capi britannici, accortisi che i romani mancavano di cavalleria (poiché le navi incaricate di trasportarla erano state bloccate e costrette a tornare in Gallia da una tempesta), attaccarono la VII legione, incaricata di provvedere al raccolto di viveri. Cesare, informato dell'accaduto, reagì prontamente e riuscì a salvare la legione. Rientrati all’accampamento, i romani si prepararono a subire un nuovo attacco dai nemici, che nel frattempo avevano radunato un nuovo esercito. Anche questo terzo attacco fu vanificato, grazie ai circa 30 cavalieri portati da Commio, con l’aiuto dei britanni filo-romani.

“Nello stesso giorno vennero a Cesare da parte dei nemici messi di pace. Cesare chiese un numero di ostaggi doppio di quel che aveva ordinato prima e comandò che glieli portassero poi sul continente”. (IV, 36).

Alla fine Cesare, resosi conto che la sua situazione era sempre più difficile da difendere e gestire, si ritirò, avendo ricevuto solo pochi ostaggi da un paio di tribù. Il Senato, nonostante l’esito non brillantissimo della campagna decretò comunque 20 giorni di feste pubbliche, non appena ricevette la missiva di Cesare contenete il resoconto degli avvenimenti.

Anche se la campagna si concluse con un insuccesso, evidenzia comunque le grandi capacità militari di Cesare e la sua volontà di portare le armate romane oltre i confini mediterranei, cosa alquanto rara non solo nella storia romana, ma in generale nella la storia antica, che ha visto questo meraviglioso mare centro della vita politica, economica e culturale di grandissimi popoli, le cui gesta riecheggiano ancora oggi dopo 2000 anni.


(Nell’immagine: Cesare sbarca in Britannia, incisione di Edward Armitage)


(I passi del De Βello Gallico sono tratti da: Opere di Gaio Giulio Cesare, (A cura di R.Ciaffi e L.Griffa), UTET, Torino 1973)

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Il 26 aprile del 121 d.C. nacque a Roma il futuro imperatore Marco Aurelio Antonino Augusto, meglio noto semplicemente come Marco Aurelio.

“Marco Aurelio vide la luce a Roma, nei giardini situati sul Celio di proprietà della madre, Domizia Lucilla Minore, che a sua volta doveva averli ereditati da Domizia Lucilla Maggiore. […] Questi giardini si estendevano in uno dei più ameni quartieri della città, sulla lunga collina, o meglio sul pianoro del Celio, lontano dalla congestione della Suburra e dalle nebbie che stagnavano frequentemente sui quartieri bassi”.

“Nel libro I dei Pensieri, in cui rievoca le persone che ha avuto intorno nell'infanzia e che hanno influito su di lui, Marco Aurelio esprime la riconoscenza al bisnonno per non averlo costretto a frequentare le scuole pubbliche e per avergli procurato invece i migliori maestri. Sappiamo d'altronde che, nella sua fanciullezza, portò il nome del nonno, Catilio Severo. In quel periodo il bambino viveva nel giardini del Celio, che amava molto e che dovette lasciare, quando fu adottato da Antonino Pio, nel 138; lì considerò sempre come la sua piccola patria molto tempo dopo aver superato i vent'anni”.

“In apparenza niente designava il giovane Marco a diventare imperatore. Grazie alla sua discendenza dagli Annii della Betica egli apparteneva a quella stessa aristocrazia provinciale spagnola che aveva già dato all'Impero Traiano e Adriano. Ma non risulta che fra i senatori originari della Spagna si sia formato un gruppo politico particolare. Le sue origini provinciali dunque non furono decisive. Contarono di più i legami familiari”.


(I passi sono tratti dalla monagrafia di Pierre Grimal: Marco Aurelio, l'imperatore che scoprì la saggezza, Garzanti, Milano, 2013)

(Nell'immagine: statua equestre dell'imperatore inizialmente posta in Piazza del Campidoglio a Roma, oggi conservata nel vicino Palazzo dei Conservatori)

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Il 22 aprile del 455 d.C. moriva a Roma l’imperatore Petronio Massimo, dopo aver regnato per poco più di un mese, dal 17 marzo del 455 alla sua morte.

Il futuro imperatore nacque nel 396 da una famiglia senatoriale romana, la gens Anicia, una tra le più illustri di Roma. Nel 411 divenne pretore e successivamente comes sacrarum largitionum, una sorta di ministro delle finanze imperiali. Fu Prefetto d’Urbe e Prefetto del pretorio d'Italia, ricoprendo anche il consolato per due mandati. Divenne imperatore dopo la morte di Valentiniano III il 16 marzo del 455 e si assicurò l'appoggio del Senato distribuendo denaro ai funzionari del palazzo imperiale. Durante il suo breve regno fece coniare una quantità elevata di monete d'oro e, secondo la storiografia moderna, cercò di garantirsi il sostegno dei soldati con forti donazioni in denaro.

Licinia Eudossia fu la causa della sua caduta; la donna era infatti stata costretta a sposare Massimo e si appellò ai Vandali che, guidati da Generico, attaccarono l'Italia. Egli non riconobbe l'autorità di Massimo e richiese le isole Baleari, la Sardegna, la Corsica e la Sicilia e, partito dall'Africa settentrionale, raggiunse Roma. Appena la notizia si diffuse, il popolo si ribellò e Petronio Massimo decise di abbandonare la città, ma fu assassinato dagli schiavi imperiali o da un gruppo di soldati ribelli, mentre tentava di fuggire.

Purtroppo è impossibile avere certezze sulla morte dell’imperatore, quel che è certo è che due giorni dopo la morte sua morte, Genserico giunse a Roma conquistandola senza colpo ferire poiché si era precedentemente accordato con papa Leone I, che gli ingiunse di risparmiare gli abitanti.

(In immagine: Solido coniato durante il regno di Petronio Massimo, nel quale l’imperatore è rappresentato sul dritto)

21 APRILE - ROMAE DIES NATALIS

In questo giorno meraviglioso nacque Roma. In principio una Città piena di timore. I nemici la circondavano in ogni dove. Nulla assicurava la sua sopravvivenza. Da questa Città, generazione dopo generazione, nacque una Civiltà che oggi vive attraverso noi.

Una tomba modesta di un Africano, ucciso nel 238 d.C., dice di più sul successo di Roma che un lungo discorso. Vi si può leggere difatti: “Morì per amore di Roma”.

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Il 12 aprile del 238 d.C. morirono Gordiano II, sul campo di battaglia e suo padre Gordiano I, suicidatosi dopo aver appreso della morte del figlio.

Padre e figlio divennero imperatori per volere dei grandi proprietari terrieri, dei soldati ausiliari e dei cittadini della provincia d'Africa, di cui Gordiano I era proconsole, subito dopo che il Senato dichiarò Massimino il Trace hostis publicus. Il padre si associò immediatamente il figlio, mentre il nipote venne nominato Cesare (il futuro imperatore Gordiano III dal 238 al 244 d.C.) e iniziò ad attuare un programma di risanamento delle finanze di Roma, cercando di ingraziarsi il popolo e i soldati e ricevendo l'appoggio di quasi tutte le province romane.

Nonostante l'appoggio ottenuto in tutto l'Impero e anche dal popolo, il loro regno durò poco meno di un mese, poiché Capeliano, il governatore di Numidia (o meglio, legatus Augusti pro praetore), era un deciso oppositore di Gordiano I per due ragioni: ebbe una disputa legale con lui (Erodiano, VII, 9, 2) ed era sostenitore di Massimino.

L'unico scontro decisivo fu la battaglia di Cartagine, combattuta tra una legione di tutto rispetto quale era la III Augusta e reparti ausiliari e cittadini raccogliticci: “Capeliano era alla testa di una poderosa armata di giovani vigorosi e ben armati, oltre che addestrati alla guerra nelle lotte sostenute contro i barbari […] i Cartaginesi erano superiori di numero, ma erano anche una turba indisciplinata e con poco addestramento militare. A peggiorare la situazione mancavano armi ed equipaggiamento adeguati” (Erodiano, VII, 9, 6).

“[…] sbaragliati dalla cavalleria numida, i pochi superstiti gettarono a terra le armi fuggendo verso la città. Molti vennero calpestati nella confusione che seguì, incalzati fin sotto le mura e trucidati davanti alle loro famiglie. Furono così tanti i morti che il corpo di Gordiano non fu ritrovato. Quando Gordiano I seppe che Capeliano era entrato in città, l'anziano imperatore si suicidò, mentre il vincitore mise a morte tutti i loro sostenitori confiscandone i beni” (Erodiano, VII, 9, 4-10).


(In foto sesterzio di Gordiano I, sul dritto: IMP(ERATOR) CAES(AR) M(ARCUS) ANT(ONIUS) GORDIANUS AFR(CANUS) AUG(USTUS) e busto laureato di Gordiano verso destra; sul rovescio: VICTORIA AUGUSTORUM e la vittoria drappeggiata con una corona nella mano destra e una palma nella sinistra. Questa moneta riporta quindi il cognomen Africanus, adottato dalla presa del potere e al rovescio AVGG, indicando quindi il regno dei due Augusti).


(I passi di Erodiano sono tratti dalla sua Storia dell'Impero Romano dopo Marco Aurelio, VII, 9, 2-10 (a cura di Filippo Cassola), Einaudi, Torino 2017).

ACCADDE OGGI

Il 9 aprile del 193 d.C. Settimio Severo veniva proclamato imperatore, primo sovrano di origine africana della storia romana.

Le circostanze che gli permisero di prendere il potere sono alquanto singolari: dopo l'assassinio di Commodo, il Senato aveva nominato imperatore Pertinace, che fu però presto eliminato dai Pretoriani e sostituito da Didio Giuliano, che acquistò la carica grazie alle sue grandissime disponibilità finanziarie. Ma le legioni non lo accettarono e si ribellarono, come riferisce molto precisamente Cassio Dione: “a quel tempo c'erano tre uomini, ognuno dei quali al comando di tre legioni, Severo, Nigro ed Albino. Quest'ultimo era il governatore della Britannia, Severo della Pannonia, Nigro della Siria” (Cassio Dione, LXXIII, 14).

“Dei tre generali che ho poc'anzi menzionato Severo era il più scaltro: avendo previsto che in seguito alla deposizione di Giuliano loro tre si sarebbero scontrati ed avrebbero combattuto per impossessarsi del potere supremo, decise di guardagnarsi l'appoggio […] di Albino nominadolo Cesare. […] Albino, nell'aspettativa di dividere il potere con Severo, rimase dov'era, mentre Severo si mosse alla volta di Roma”. (Cassio Dione, Ivi, 15).

Il particolareggiato resoconto Dioneo prosegue riferendo la reazione di Didio Giuliano: “Quando venne a conoscenza di questi fatti attraverso l'autorità del Senato, dichiarò Severo nemico pubblico e si preparò a combatterlo […] mandò contro Severo alcuni uomini col compito di ucciderlo a tradimento: questi, invece, dopo essere giunto in Italia, occupò Ravenna senza combattere, mentre gli uomini che Giuliano gli mandava incontro passavano dalla sua parte […] Allora Giuliano ci convocò [convocò i senatori, tra cui lo stesso Dione] e ci ordinò di decretare che Severo diventasse suo collega nell'impero. Ma i soldati, persuasi da una lettera di Severo del fatto che, se avessero consegnato gli uccisori di Pertinace e avessero garantito la pace, non sarebbe accaduto alcun male, arrestarono gli assassini di Pertinace. […] Condannammo allora a morte Giuliano, proclamammo Severo imperatore attribuimmo onori divini a Pertinace. (Cassio Dione, Ivi, 16-17)


(Nell'immagine: Busto di Settimio Severo conservato nel Museo Archeologico Nazionale di Napoli)

(I passi di Cassio Dione sono tratti da: Cassio Dione, Storia Romana, Volume Nono (a cura di A. Galimberti, A. Stroppa), BUR, Milano 2018.

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