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VOCI DI ROMA
ANCO MARZIO E IL RITO FEZIALE
“Volendo istituire cerimonie guerresche, perché non si facessero guerre senza prima averle dichiarate secondo un certo rito, fissò la procedura, tratta dagli antichi Equicoli e ancor oggi seguita dai feziali, con la quale si richiedono riparazioni. Quando il messo giunge nel territorio del popolo al quale si chiedono riparazioni, col capo bendato dice: «Ascolta Giove, ascoltate oh confini - e qui nomina il popolo a cui essi appartengono - ascolti la giustizia divina: io sono il pubblico rappresentante del popolo romano; vengo delegato giustamente e santamente e alle mie parole sia prestata fede».
Quindi espone le richieste ed invoca Giove a testimone: «Se io chiedo che mi vengano consegnate quelle persone e quelle cose contrariamente al diritto romano e divino, non permettere che io riveda mai più la mia patria». Queste cose ripete e varca il confine, quando incontra il primo uomo in territorio nemico, quando entra nella città e quando giunge al foro, mutando solo poche parole della formula.
Se non vengono soddisfatte le sue richieste, passati 33 giorni, in questo modo dichiara guerra: «Ascolta, oh Giove e tu, oh Giano Quirino e voi tutti, oh dèi del cielo, della terra e degli inferi, ascoltate; io vi invoco a testimoni che quel popolo - e qui ne fa il nome - è ingiusto e non concede il risarcimento dei danni. Ma su queste cose consulteremo gli anziani in patria, su come possiamo far valere il nostro il nostro diritto».
Tornato a Roma, il re poi si consultava col Senato e se si decideva per la guerra […] era usanza che il feziale portasse al confine nemico un'asta con la punta di ferro o bruciacchiata e tinta di sangue, dichiarando guerra e lanciandola nel territorio nemico.”
✍️Tito Livio, I, 32, 5-11 (a cura di Claudio Moreschini), BUR, Milano 2013.
(Nell'immagine: affresco proveniente dalla necropoli dell'Esquilino,tomba dei Fabii o Fannii, oggi ai Musei Capitolini.Datato alla prima metà III secolo a.C. ritrae forse un rito feziale.
ROMA SU PIETRA
LA CARRIERA DI PLATORIO NEPOTE
Trattasi di una celeberrima iscrizione onoraria, molto citata per la sua ammirevole completezza e per i diversi elementi di interesse che presenta, tra gli altri:
la straordinaria complessità della formula onomastica, la particolare organizzazione del cursus honorum in un ordine personalizzato.
Qui interessano in particolare i due incarichi germanici: agli inizi della carriera il tribunato militare della legio XXII Primigenia Pia Fidelis, di stanza a Mogontiacum, dopo circa 20 anni il governatorato della Germania inferior.
Legittimo chiedersi quanto decisivo potesse essere stata la permanenza nello stato maggiore di una legione acquartierata nella capitale della Germania Superior per la sua nomina a governatore della Germania Inferior.
Almeno altrettanto importanti le esperienze come governatore della provincia di Tracia e il comando della legio I Adiutrix, di stanza a Brigetio, in Pannonia, impegnata nelle guerre daciche di Traiano. Da non sottovalutare infine, forse grazie alla grande competenza ed esperienza maturate, il governatorato provinciale in Britannia, uno degli incarichi di più alto rango, (insieme ai proconsolati di Africa e Asia).
Di seguito il testo dell'iscrizione (CIL V, 877= ILS 1052):
A(ulo) Platorio A(uli) f(ilio) / Serg(ia) Nepoti / Aponio Italico / Maniliano / C(aio) Licinio Pollioni, / co(n)s(uli) auguri, legat(o) Aug(usti) / pro pr(aetore) provinc(iae) Bri/tanniae, leg(ato) pro pr(aetore) pro/vinc(iae) German(iae) inferior(is), / leg(ato) pro pr(aetore) provinc(iae) Thrac(iae), / leg(ato) leg(ionis) I Adiutricis, / quaest(ori) provinc(iae) Maced(oniae), / curat(ori) viarum Cassiae / Clodiae Ciminiae novae / Traianae, candidato divi / Traiani trib(uno) mil(itum) leg(ionis) XXII / Primigen(iae) P(iae) F(idelis), praet(ori), trib(uno) / pleb(is), IIIvir(o) capitali, / patrono, / d(ecreto) d(ecurionum).
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Il 18 marzo del 37 d.C. Gaio Giulio Cesare Augusto Germanico, meglio noto come Caligola, divenne Imperatore.
Le circostanze della sua ascesa al principato ci vengono tramandate soprattutto da Svetonio e da Cassio Dione, i quali insistono sulle volontà testamentarie del predecessore ed esaltano l'ascendenza su tutto il popolo romano.
“Tiberio, tuttavia, aveva lasciato in eredità l'impero anche a suo nipote Tiberio (Gemello, figlio di Druso Minore e di Livilla), ma Gaio, dopo aver inviato in Senato il testamento dell'Imperatore per mezzo di Macrone, lo fece invalidare dai consoli, sulla base del fatto che era stato compilato da una persona che non era in possesso delle sue facoltà mentali, visto che aveva permesso a un fanciullo, al quale non era neppure concesso entrare in Senato, di governare su di loro” (Cassio Dione, LIX, 1-2).
“Ottenuto così il potere, esaudì i voti del popolo romano, principe desideratissimo dalla maggior parte dei provinciali e dei soldati, che in molti lo avevano conosciuto da bambino, ma anche da tutta la plebe urbana memore del padre Germanico. […] Pertanto, quando lasciò Miseno, sebbene stesse accompagnando il feretro di Tiberio, vestito a lutto, avanzò in mezzo a una fittissima ed entusiasta folla di gente che gli andava incontro. […] Gli vennero conferiti potere e autorità assoluti, in un tale tripudio popolare che nei tre mesi successivi si dice che furono immolati oltre 160 mila animali. A quell'immenso amore dei cittadini, si aggiunse anche un notevole favore degli stranieri. Atrabano, re dei Parti, chiese di essergli amico e venne a colloquio con il legato consolare e, quando ebbe attraversato l'Eufrate, rese ossequio alle aquile e alle insegne romane e all'effige dei Cesari” (Svetonio, Caligola, XIII; XIV).
(I passi sono tratti da: Cassio Dione, Storia Romana (a cura di Marta Sordi), BUR, Milano 2014; Svetonio, Vita dei Cesari (a cura di Francesco Casorati), Newton Compton, Roma 2010.
(Nell'immagine busto di Caligola, conservato presso il Metropolitan Museum of Art di New York).
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Il 17 marzo del 45 a.C. ci fu la battaglia presso le pianure di Munda, l'ultimo scontro di rilievo della guerra civile in Iberia e che vide contrapposti sul campo di battaglia Giulio Cesare contro Gneo Pompeo e Tito Labieno, suo ex legato in Gallia.
Il resoconto della battaglia ci viene fornito in modo dettagliato da Cassio Dione e dal Bellum Hispaniense (un'opera letteraria il cui autore, probabilmente un comandante di Cesare, è sconosciuto).
“L'ordine di battaglia constava di 13 aquile, che erano protette ai lati dalla cavalleria, con 6 mila uomini di fanteria leggera; si aggiungevano inoltre quasi altrettanti ausiliari. Le nostre forze consistevano in 80 coorti e 8 mila cavalieri” (Bell. Hisp., XXX, 1).
L'esercito di Pompeo era accampato su una piccola collina, posizione sfavorevole ad un eventuale attacco di Cesare: “Sebbene i nostri fossero superiori per valore, gli avversari si difendevano disperatamente sulla posizione superiore e c'era da entrambi i lati un forte rumore e un fitto tiro di proiettili, così che i nostri quasi disperavano della vittoria” (Ivi, XXXI, 1).
“Cesare e Pompeo, vedendo dai loro cavalli a dalle alture questo spettacolo, non sapevano se dovevano sperare o temere. Nel vedere la battaglia dall'esito incerto, saltarono giù dai loro cavalli e si gettarono nella mischia” (Cassio Dione, XLIII, 37, 3-4).
Vista la progressione di Cesare sull'ala destra del suo schieramento, Pompeo tolse una legione dal suo fianco destro per poter meglio fronteggiare l'avanzata di Cesare, commettendo un grave errore: infatti la cavalleria di Cesare attaccò in forze il lato destro di Pompeo, mentre la cavalleria del re di Mauretania Bogud, tenuta a riposo fino a quel momento, riuscì a portarsi sul retro dello schieramento del figlio di Pompeo Magno, creando totale scompiglio tra le fila dell'esercito avversario.
“[…] i soldati non poterono più ricostituire le proprie file, perciò fuggirono, dirigendosi verso la città, respingendo con vigore i nemici e non desistettero prima di essere circondati da ogni parte e la città fu conquistata solo dopo che tutti caddero nella varie sortite. Le perdite tra i soldati romani, tra i quali Labieno, furono da ambo le parti così elevate che i vincitori, non sapendo come sbarrare le uscite dalla città per impedire che di notte qualcuno fuggisse, ammucchiarono davanti ad esse i cadaveri dei nemici” (Ivi, XLIII, 38, 3-4).
La completa vittoria di Cesare e la pacificazione successiva della penisola Iberica segnarono l’eliminazione di ogni forza armata di opposizione ai progetti di Cesare, il quale tornò a Roma divenendo dictator.
(I passi sono tratti da: Cassio Dione, Storia Romana (a cura di Giuseppe Norcio), BUR, Milano 1995; Pseudo-Cesare, La lunga guerra civile (a cura di Luigi Loreto), BUR, Milano 2009).
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Il 15 marzo del 44 a.C., presso la Curia di Pompeo, luogo in cui si riuniva il Senato di Roma, veniva assassinato Gaio Giulio Cesare.
Politico raffinato e sottile, abile soprattutto nel piegare gli altri ai propri scopi, e legislatore dalle amplissime vedute, capace di elaborare nel tempo un programma di riforme paragonabile a quelli di Caio Gracco e di Silla; oratore di livello straordinario e scrittore dallo stile limpidissimo, ingegnere e riformatore del calendario, capace dunque di eccellere in qualsiasi cosa cui si applicasse, questo patrizio di antica schiatta era illuminato dalla rara scintilla del genio. Tale egli si rivelò anche nel campo dell’arte militare: oltre alla conquista della Gallia, durante le successive guerre civili i generali migliori di Roma furono schierati tutti contro di lui ed egli seppe superare il talento organizzativo di Pompeo e l’astuzia di Afranio, la rude tempra di Petreio e la maestria tattica di Labieno.
Furono probabilmente proprio i successi in Gallia e l’attrazione magnetica che egli sentì ben presto di esercitare sui propri soldati a spingerlo verso un’ambizione monarchica che, latente forse fino dalla giovinezza, era stata tuttavia controllata e riposta nella prima fase della sua carriera politica, tutta dedicata, in apparenza, a far trionfare la causa dei populares. Fu probabilmente solo alla vigilia della guerra civile che si manifestarono per la prima volta le mire di Cesare, volte in apparenza all’instaurazione di una sovranità forse di stampo ellenistico.
Come altri grandi prima di lui, egli fu tradito dalla presunzione della sua stessa intelligenza. Solo, fatale errore fu il non aver capito che quanto era evidente a lui stesso – omnem potentiam in unum conferri pacis interesse: che, per dirla con Tacito, giovava alla causa della pace attribuire ormai tutto il potere ad un solo uomo – non lo era alla massa dei cittadini romani e a buona parte della nobilitas senatoria.
Il suo nome riecheggia nella storia da più di 2000 anni e ancora riecheggerà forse per l’eternità. Lui è Gaius Iulius Caesar. L’uomo che cambiò Roma e la storia.
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Il 19 febbraio del 197 d.C. Settimio Severo sconfiggeva il rivale Clodio Albino nella battaglia di Lugdunum, odierna Lione.
Stando ai resoconti degli storici antichi, ed in particolare di Cassio Dione, le due armate che si scontrarono erano composte da 150.000 soldati complessivi, con Clodio Albino che poteva disporre di circa 60.000 legionari e Settimio Severo che contava quindi su circa 90.000 uomini, in massima parte provenienti dal limes renano e danubiano.
“Da entrambe le parti c'erano centocinquantamila soldati ed erano presenti allo scontro ambedue i comandanti. Albino era superiore per nobiltà e per la formazione ricevuta, mentre il suo rivale prevaleva nella scienza militare e nell'arte di condurre un esercito” (Cassio Dione, Storia Romana, LXXVI, 6).
La battaglia ebbe inizio con una mossa a sorpresa di Severo che avanzò con l'ala destra per poi ripiegare, inseguito dalla cavalleria sarmata di Albino, attirandola in un'imboscata e distruggendola completamente. Dopo questo primo successo il sovrano guidò l'avanzata dell'ala sinistra, ma l'attacco non ebbe esito positivo.
Dopo due giorni di combattimenti incerti Giulio Leto, il comandante della cavalleria severiana, attaccò i fianchi delle legioni avversarie, sfondandone le linee. Sentendosi perduto, Clodio Albino preferì correre al proprio accampamento, per poi suicidarsi.
“Durante un combattimento in cui molti soldati di Clodio erano caduti, molti si erano dati alla fuga ed altri arresi, egli fuggì e poi, secondo alcuni, cercò di uccidersi con le proprie mani o, secondo altri, si fece trafiggere da un servo” (Historia Augusta, Vita di Clodio Albino, IX).
(Nell'immagine: rappresentazione contemporanea di Settimio Severo durante la battaglia di Lugdunum, tratta da Ancient Warfare Magazine)
(Il passo di Cassio Dione è tratto da: Cassio Dione, Storia Romana volume IX, (a cura di Alessandro Galimberti), BUR, Milano 2018.
Il passo dell'Historia Augusta è tratto da: Scrittori dell'Historia Augusta, (a cura di Leopoldo Agnes), UTET, Torino 1960).
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Nella notte tra il 26 e il 27 agosto del 55 a.C., Gaio Giulio Cesare portava per la prima volta nella storia le armate romane in Britannia. Nel De bello Gallico il generale romano riferisce che l’invasione era dettata dal fatto che i Galli durante la loro resistenza contro i romani, ricevettero l’aiuto delle tribù britanniche e “se non gli fosse stata sufficiente la stagione propizia per una guerra, giudicava che gli sarebbe stato di grande utilità se anche solo fosse andato nell’isola e avesse avuto nozione di quei popoli e avesse conosciuto le località, i porti e gli approdi, cose quasi tutte ignote ai Galli […] Perciò, quantunque avesse convocati presso di sé da ogni parte i mercanti, non poté saper nulla né della grandezza dell’isola, né delle popolazioni che la abitavano, né della loro esperienza in guerra, né delle loro istituzioni e neppure se vi fossero porti adatti ad accogliere un grande numero di navi da guerra”. (De Bello Gallico, IV, 20).
Vista la difficoltà nel reperire informazioni decise di inviare in avanscoperta il tribuno Gaio Voluseno, con il compito di esplorare la costa. Intanto i mercanti riferiscono ai britanni le azioni romane e “ varie città dell’isola gli mandarono ambasciatori, promettendogli di dare ostaggi e e di obbedire agli ordini del popolo romano. Egli li ascoltò e con cortesi promesse li esortò a mantenersi in questa loro decisione, indi li mandò in patria e insieme con essi inviò anche Commio, che egli dopo la vittoria sugli Atrebati aveva creato re, uomo che egli apprezzava per il suo valore e per il suo senno”. (IV, 21).
Raccolse quindi una flotta composta da ben 80 navi a Portus Itius (odierna Boulogne) e decise di trasportare nell’isola la settima e la decima legione; suddivise le navi da guerra di cui disponeva tra il questore, i legati e i prefetti. A esse si aggiungevano altre diciotto navi da carico che furono riservate alla cavalleria; lo stesso Cesare nei suoi commentari ci riferisce che “verso la mezzanotte salpò […] giunse con le prime navi in Britannia verso le dieci del mattino. Ivi vide schierato su tutti i colli l’esercito nemico in armi”. (IV, 23).
Dopo molte difficoltà, l’esercito romano riuscì a sbarcare in Kent, dove i Britanni tentarono di ostacolare lo sbarco dei romani, che però riuscirono a mettere in fuga i difensori; tuttavia mancò una definitiva vittoria, a causa del mancato arrivo della cavalleria romana. I nemici “mandarono ambasciatori a Cesare per chiedere la pace: promisero che avrebbero dato ostaggi e avrebbero eseguito tutti i suoi ordini. Insieme con questi ambasciatori giunse anche Commio” (IV, 27) che poco dopo essere sbarcato in Britannia era stato fatto prigioniero.
La pace fu però di brevissima durata poiché i capi britannici, accortisi che i romani mancavano di cavalleria (poiché le navi incaricate di trasportarla erano state bloccate e costrette a tornare in Gallia da una tempesta), attaccarono la VII legione, incaricata di provvedere al raccolto di viveri. Cesare, informato dell'accaduto, reagì prontamente e riuscì a salvare la legione. Rientrati all’accampamento, i romani si prepararono a subire un nuovo attacco dai nemici, che nel frattempo avevano radunato un nuovo esercito. Anche questo terzo attacco fu vanificato, grazie ai circa 30 cavalieri portati da Commio, con l’aiuto dei britanni filo-romani.
“Nello stesso giorno vennero a Cesare da parte dei nemici messi di pace. Cesare chiese un numero di ostaggi doppio di quel che aveva ordinato prima e comandò che glieli portassero poi sul continente”. (IV, 36).
Alla fine Cesare, resosi conto che la sua situazione era sempre più difficile da difendere e gestire, si ritirò, avendo ricevuto solo pochi ostaggi da un paio di tribù. Il Senato, nonostante l’esito non brillantissimo della campagna decretò comunque 20 giorni di feste pubbliche, non appena ricevette la missiva di Cesare contenete il resoconto degli avvenimenti.
Anche se la campagna si concluse con un insuccesso, evidenzia comunque le grandi capacità militari di Cesare e la sua volontà di portare le armate romane oltre i confini mediterranei, cosa alquanto rara non solo nella storia romana, ma in generale nella la storia antica, che ha visto questo meraviglioso mare centro della vita politica, economica e culturale di grandissimi popoli, le cui gesta riecheggiano ancora oggi dopo 2000 anni.
(Nell’immagine: Cesare sbarca in Britannia, incisione di Edward Armitage)
(I passi del De Βello Gallico sono tratti da: Opere di Gaio Giulio Cesare, (A cura di R.Ciaffi e L.Griffa), UTET, Torino 1973)
VOCI DI ROMA
I BAGAUDI: DISAGIO SOCIALE IN GALLIA (IV E V SEC. D.C.)
“Ed ora dovrei parlare dei Bagaudi, che spogliati, perseguitati, trucidati da giudici malvagi, dopo aver perso la libertà romana persero anche l'onore del nome romano. Si imputa ad essi la propria infelicità e li chiamiamo ribelli, perduti, essi che noi appunto spingemmo ad essere criminali.
Per quali altri motivi infatti diventarono Bagaudi, se non per le nostre ingiustizie, per la disonestà dei giudici, per le prescrizioni e le rapine di coloro che volsero a entrare del proprio guadagno il pretesto della pubblica esazione dei tributi e trasformarono in proprio bottino le intimazioni tributarie? Che a somiglianza di belve inumane non governarono le persone a loro affidate, ma le divorarono e si pascevano non soltanto delle spoglie degli uomini, come sono soliti i più briganti, ma anche dello sbranamento e per così dire del loro sangue stesso?
E così accadde che gli uomini strangolati dai giudici e governanti cominciarono ad essere come barbari, perché non si permetteva loro di essere Romani: si rassegnarono ad essere quel che non erano e furono costretti a difendere almeno la vita, perché vedevano di aver perso del tutto la libertà”.
✍️ Salviano di Marsiglia, Sul governo di Dio, V, 6 (a cura di S. Cola), Città Nuova, Roma 1994.
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Il 26 aprile del 121 d.C. nacque a Roma il futuro imperatore Marco Aurelio Antonino Augusto, meglio noto semplicemente come Marco Aurelio.
“Marco Aurelio vide la luce a Roma, nei giardini situati sul Celio di proprietà della madre, Domizia Lucilla Minore, che a sua volta doveva averli ereditati da Domizia Lucilla Maggiore. […] Questi giardini si estendevano in uno dei più ameni quartieri della città, sulla lunga collina, o meglio sul pianoro del Celio, lontano dalla congestione della Suburra e dalle nebbie che stagnavano frequentemente sui quartieri bassi”.
“Nel libro I dei Pensieri, in cui rievoca le persone che ha avuto intorno nell'infanzia e che hanno influito su di lui, Marco Aurelio esprime la riconoscenza al bisnonno per non averlo costretto a frequentare le scuole pubbliche e per avergli procurato invece i migliori maestri. Sappiamo d'altronde che, nella sua fanciullezza, portò il nome del nonno, Catilio Severo. In quel periodo il bambino viveva nel giardini del Celio, che amava molto e che dovette lasciare, quando fu adottato da Antonino Pio, nel 138; lì considerò sempre come la sua piccola patria molto tempo dopo aver superato i vent'anni”.
“In apparenza niente designava il giovane Marco a diventare imperatore. Grazie alla sua discendenza dagli Annii della Betica egli apparteneva a quella stessa aristocrazia provinciale spagnola che aveva già dato all'Impero Traiano e Adriano. Ma non risulta che fra i senatori originari della Spagna si sia formato un gruppo politico particolare. Le sue origini provinciali dunque non furono decisive. Contarono di più i legami familiari”.
(I passi sono tratti dalla monagrafia di Pierre Grimal: Marco Aurelio, l'imperatore che scoprì la saggezza, Garzanti, Milano, 2013)
(Nell'immagine: statua equestre dell'imperatore inizialmente posta in Piazza del Campidoglio a Roma, oggi conservata nel vicino Palazzo dei Conservatori)
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Il 22 aprile del 455 d.C. moriva a Roma l’imperatore Petronio Massimo, dopo aver regnato per poco più di un mese, dal 17 marzo del 455 alla sua morte.
Il futuro imperatore nacque nel 396 da una famiglia senatoriale romana, la gens Anicia, una tra le più illustri di Roma. Nel 411 divenne pretore e successivamente comes sacrarum largitionum, una sorta di ministro delle finanze imperiali. Fu Prefetto d’Urbe e Prefetto del pretorio d'Italia, ricoprendo anche il consolato per due mandati. Divenne imperatore dopo la morte di Valentiniano III il 16 marzo del 455 e si assicurò l'appoggio del Senato distribuendo denaro ai funzionari del palazzo imperiale. Durante il suo breve regno fece coniare una quantità elevata di monete d'oro e, secondo la storiografia moderna, cercò di garantirsi il sostegno dei soldati con forti donazioni in denaro.
Licinia Eudossia fu la causa della sua caduta; la donna era infatti stata costretta a sposare Massimo e si appellò ai Vandali che, guidati da Generico, attaccarono l'Italia. Egli non riconobbe l'autorità di Massimo e richiese le isole Baleari, la Sardegna, la Corsica e la Sicilia e, partito dall'Africa settentrionale, raggiunse Roma. Appena la notizia si diffuse, il popolo si ribellò e Petronio Massimo decise di abbandonare la città, ma fu assassinato dagli schiavi imperiali o da un gruppo di soldati ribelli, mentre tentava di fuggire.
Purtroppo è impossibile avere certezze sulla morte dell’imperatore, quel che è certo è che due giorni dopo la morte sua morte, Genserico giunse a Roma conquistandola senza colpo ferire poiché si era precedentemente accordato con papa Leone I, che gli ingiunse di risparmiare gli abitanti.
(In immagine: Solido coniato durante il regno di Petronio Massimo, nel quale l’imperatore è rappresentato sul dritto)
21 APRILE - ROMAE DIES NATALIS
In questo giorno meraviglioso nacque Roma. In principio una Città piena di timore. I nemici la circondavano in ogni dove. Nulla assicurava la sua sopravvivenza. Da questa Città, generazione dopo generazione, nacque una Civiltà che oggi vive attraverso noi.
Una tomba modesta di un Africano, ucciso nel 238 d.C., dice di più sul successo di Roma che un lungo discorso. Vi si può leggere difatti: “Morì per amore di Roma”.
VOCI DI ROMA
CONTRO LA REGALITA’ TARDO ANTICA
“Voglio dire che nulla in altri tempi ha così minato l'impero romano come ore il teatrale apparato per la persona fisica del basiléus che anche per voi [Arcadio] si appresta, come se si officiasse un culto, in segreto, perché poi essa venga esposta al pubblico alla maniera barbarica […].
Codesta maestosità vostra, unita al timore di assimilarvi ai mortali, ove mai divenisse abituale spettacolo al pubblico, vi tiene rinchiusi, volontariamente segregati […]. Sino a quando disdegnerete la misura umana non raggiungerete neppure la perfezione umana”.
✍️ Sinesio, Orazione prima sulla regalità, 14 (a cura di Carlotta Amande e Luciano Canfora), Sellerio Editore, Palermo 2000.
(Nell'immagine: il Missorio di Teodosio, un piatto decorato di largizione, prodotto nel 388 o 393 d.C. a Costantinopoli per i decennalia o i quindecennalia di Teodosio I, raffigurato in trono dinanzi a un tribunal, sormontato da timpani triangolari e aperto in un arco al di sopra della figura imperiale e affiancato da Valentiniano II (od Onorio) e Arcadio, mentre consegna i codicilla a un alto funzionario. Nella zona inferiore del disco è raffigurata la Terra, sdraiata, con cornucopia e il volto di Teodosio I con diadema, circondato dal nimbo, è giovanile. L'opera riunisce in sé tutte le componenti della regalità tardo antica: la tradizione del culto imperiale, la maestà della persona imperiale che è esaltata, la prosperità e l'universalità del regno e l'unità della famiglia imperiale. Arco e nimbo fanno riferimento alla volta cosmica e dunque al carattere semi-divino del personaggio che sovrasta).
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Il 12 aprile del 238 d.C. morirono Gordiano II, sul campo di battaglia e suo padre Gordiano I, suicidatosi dopo aver appreso della morte del figlio.
Padre e figlio divennero imperatori per volere dei grandi proprietari terrieri, dei soldati ausiliari e dei cittadini della provincia d'Africa, di cui Gordiano I era proconsole, subito dopo che il Senato dichiarò Massimino il Trace hostis publicus. Il padre si associò immediatamente il figlio, mentre il nipote venne nominato Cesare (il futuro imperatore Gordiano III dal 238 al 244 d.C.) e iniziò ad attuare un programma di risanamento delle finanze di Roma, cercando di ingraziarsi il popolo e i soldati e ricevendo l'appoggio di quasi tutte le province romane.
Nonostante l'appoggio ottenuto in tutto l'Impero e anche dal popolo, il loro regno durò poco meno di un mese, poiché Capeliano, il governatore di Numidia (o meglio, legatus Augusti pro praetore), era un deciso oppositore di Gordiano I per due ragioni: ebbe una disputa legale con lui (Erodiano, VII, 9, 2) ed era sostenitore di Massimino.
L'unico scontro decisivo fu la battaglia di Cartagine, combattuta tra una legione di tutto rispetto quale era la III Augusta e reparti ausiliari e cittadini raccogliticci: “Capeliano era alla testa di una poderosa armata di giovani vigorosi e ben armati, oltre che addestrati alla guerra nelle lotte sostenute contro i barbari […] i Cartaginesi erano superiori di numero, ma erano anche una turba indisciplinata e con poco addestramento militare. A peggiorare la situazione mancavano armi ed equipaggiamento adeguati” (Erodiano, VII, 9, 6).
“[…] sbaragliati dalla cavalleria numida, i pochi superstiti gettarono a terra le armi fuggendo verso la città. Molti vennero calpestati nella confusione che seguì, incalzati fin sotto le mura e trucidati davanti alle loro famiglie. Furono così tanti i morti che il corpo di Gordiano non fu ritrovato. Quando Gordiano I seppe che Capeliano era entrato in città, l'anziano imperatore si suicidò, mentre il vincitore mise a morte tutti i loro sostenitori confiscandone i beni” (Erodiano, VII, 9, 4-10).
(In foto sesterzio di Gordiano I, sul dritto: IMP(ERATOR) CAES(AR) M(ARCUS) ANT(ONIUS) GORDIANUS AFR(CANUS) AUG(USTUS) e busto laureato di Gordiano verso destra; sul rovescio: VICTORIA AUGUSTORUM e la vittoria drappeggiata con una corona nella mano destra e una palma nella sinistra. Questa moneta riporta quindi il cognomen Africanus, adottato dalla presa del potere e al rovescio AVGG, indicando quindi il regno dei due Augusti).
(I passi di Erodiano sono tratti dalla sua Storia dell'Impero Romano dopo Marco Aurelio, VII, 9, 2-10 (a cura di Filippo Cassola), Einaudi, Torino 2017).