#oppressione

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“ Nell’angoscia dell’inserimento sociale il giovane nasconde un conflitto col modello patriarcale. Questo conflitto si rivela nelle istanze anarchiche in cui viene espresso un no globale, senza alternative: la virilità rifiuta di essere paternalistica, ricattatoria. Ma senza la presenza del suo alleato storico, la donna, l’esperienza anarchica del giovane è velleitaria, ed egli cede al richiamo della lotta organizzata di massa. La ideologia marxista-leninista gli offre la possibilità di rendere costruttiva la sua ribellione affiancandosi alla lotta del proletariato a cui è delegata anche la sua liberazione. Ma così facendo il giovane viene risucchiato in una dialettica prevista dalla cultura patriarcale, che è la cultura della presa del potere; mentre crede di aver individuato col proletariato il nemico comune nel capitalismo, abbandona il terreno suo proprio della lotta al sistema patriarcale. Egli pone tutta la sua fiducia nel proletariato come portatore della istanza rivoluzionaria: vuole svegliarlo se gli sembra intorpidito dai successi dei sindacati e dal tatticismo dei partiti, ma non ha dubbi che quella è la nuova figura storica. Facendo la lotta per un altro il giovane ancora una volta subordina se stesso che è esattamente quanto si è sempre voluto da lui. La donna, la cui esperienza femminista ha due secoli di vantaggio su quella del giovane, e che all’interno della rivoluzione francese prima, di quella russa poi ha cercato di unire la sua problematica a quella dell’uomo sul piano politico, ottenendo solo il ruolo di aggregato, afferma che il proletariato è rivoluzionario nei confronti del capitalismo, ma riformista nei confronti del sistema patriarcale.
Secondo una notazione di Gramsci, «i giovani della classe dirigente (nel senso più largo) si ribellano e passano alla classe progressiva che è diventata storicamente capace di prendere il potere: ma in questo caso si tratta di giovani che dalla direzione degli anziani di una classe passano alla direzione degli anziani di un’altra classe; in ogni caso rimane la subordinazione reale dei giovani agli anziani come generazione» (citazione tratta da A. Gramsci, Gli intellettuali e l’organizzazione della cultura). “

Carla Lonzi,Sputiamo su Hegel.

[ 1ª edizione: casa editrice “Rivolta Femminile”, 1970 ]

“ Il capo reparto stava in fondo e si vedeva di rado. I pezzi arrivavano sui nastri trasportatori, contati e controllati; tanti pezzi all’ora. Dopo una settimana riuscivo a seguire il ritmo del lavoro e avevo tempo ogni tanto per alzare la testa. Alzare la testa come se potessi farlo contro i miei mali e le tristi congiure.
Fuori l’inverno correva e si arrampicava su quelle querce, sopra i capannoni. La sera lo vedevo sul lago bianco e stretto.
Fino a tutto gennaio neve non tanta ma sovente, ogni due o tre giorni, senza attaccare. La guardavo dalla fabbrica e capivo che era inutile e che non avrebbe resistito.
Intanto continuavo il mio lavoro in mezzo agli altri, in silenzio, senza amicizie. Pinna non lo vedevo quasi piú e Gualatrone lo incontravo qualche volta alla mensa; ma era molto impegnato per l’amore e il partito. L’assistente sociale, dopo il trasferimento e la punizione, non l’avevo piú vista. Non andavo piú al cinema tutte le sere, perché a ora tarda era troppo freddo, anche con il cappotto.
In quel reparto del montaggio tutto mi sembrava nuovo e io stesso non avevo piú i risentimenti di prima.
Soffrivo ma con piú calma. Tutto l’ambiente, piú largo e piú luminoso, sembrava un posto inesistente, che dovesse sparire presto. Eravamo una massa confusa, che non chiedeva nulla, nemmeno a ciascuno di noi.
Eravamo tutti distratti anche se i nostri pensieri si accanivano. A certe ore nel reparto suonava la musica. Io l’ascoltavo e mi faceva bene. Spesso però mi ricordava il sanatorio, dove i malati cominciano ad aprire la radio alla mattina presto. Quando suonava la musica, il capo si alzava e cominciava a camminare su e giú nel corridoio in mezzo ai tavoli. Non guardava e non diceva niente a nessuno. Si chiamava Salvatore e faceva collezione di francobolli. In tutto il tempo che stetti con lui mi parlò soltanto due o tre volte, quando doveva farmi qualche comunicazione dell’infermeria o dell’Ufficio Personale.
Accompagnava le parole con un biglietto. Ricordo che per firmare impuntava la penna un attimo prima della esse maiuscola. Il suo silenzio era come tutto quello del reparto e nei suoi occhi non si leggevano intenzioni.
Cosí rimasi a lungo in quel posto senza seccature e ormai non m’importava piú nulla della qualifica e del lavoro.
Montare i pezzi era noioso ma anche faticoso, di una fatica che mi prendeva e mi accompagnava per tutta la giornata come un cattivo umore. “

Paolo Volponi,Memoriale, Garzanti, 1976 [1ª edizione 1962]; pp. 195-196.

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