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“ La pandemia del suprematismo bianco si sta diffondendo come una gramigna anche in Europa. Non dimentichiamoci che qui trova un terreno fertile sia per il nazismo, con l’eliminazione fisica di milioni di ebrei, rom, omosessuali sia per il fascismo, con il Manifesto della razza e le leggi razziali di Mussolini.
Oggi l’“estrema destra di Dio”, come la chiama il teologo spagnolo Juan Tamayo, si sta espandendo in Europa, dalla Spagna agli Urali.
In Spagna c’è un’incredibile armonia tra le organizzazioni cattoliche spagnole ultraconservatrici HartetOir,El Yunque,InfoCatólicae altre come il partito di estrema destra Voxche sta guadagnando sempre più consensi nonché rilevanza politica. Anche la leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni ha partecipato alla convention di Voxnel 2021. Voxvuole costruire veri e propri muri attorno a Ceuta e Melilla per bloccare i migranti. E anche in Portogallo l’estrema destra populista di Chegasta ottenendo sempre più consenso.
In Francia è il Rassemblement National, denominato fino al 2018 Front National, a essere la voce del­l’estrema destra. Fondato da Jean-Marie Le Pen, il Front National propone l’identità francese contro l’integrazione, nega l’Olocausto e mantiene legami con i gruppi neofascisti. Nelle ultime elezioni europee il Rassemblement National, guidato da Marine Le Pen, ha ottenuto cinque milioni di voti. Ma per le prossime elezioni (2022), in Francia si presenterà il nuovo fenomeno del­l’ultradestra Éric Zemmour, misogino, omofobo, islamofobo, razzista. Ritiene che il partito di Marine Le Pen non sia abbastanza duro e razzista. “L’ossessione di Zemmour è l’islam.” La sua teoria è quella della sostituzione “perché,” egli afferma, “è in corso una colonizzazione da parte degli stranieri”. Il 30 novembre 2021 si è candidato ufficialmente alle elezioni presidenziali francesi, e il 5 dicembre ha fondato, a sostegno della sua candidatura, il partito politico Reconquête(Riconquista), un chiaro riferimento storico alla Reconquista spagnola contro la dominazione musulmana. Ha l’appoggio di banchieri, milionari reazionari, del sistema mediatico di Bolloré, nonché di una parte del mondo cattolico.
In Austria è stato Jörg Haider nel 1993 a lanciare con il suo partito FpÖ (Partito della libertà austriaca) la campagna “Prima l’Austria”, con cui intendeva introdurre leggi più severe contro l’immigrazione. Nelle elezioni del 1999 Haider ottenne un risultato storico portando il suo partito a diventare il secondo partito del Paese, ma poi ha perso consensi per lo scandalo che ha coinvolto il leader dell’FpÖ, Heinz C. Strache. I vari governi che si sono poi succeduti in Austria hanno preservato politiche a forti spinte populiste, identitarie e antimigranti.
Nella vicina Germania sta guadagnando sempre più terreno il partito razzista Alternativa per la Germania(AfD), che ha ottenuto buoni risultati in Germania Orientale, in Sassonia, e ora sta conquistando consensi anche in Baviera. Infatti nella ricchissima e cattolica Baviera, che non riesce a trovare forza lavoro per circa trentamila posti, c’è un crescente rifiuto dei migranti siriani fatti entrare dalla Merkel. La classe media ha paura di perdere il suo benessere e vuole preservarlo costruendo muri. Sarebbero più di dodicimila gli appartenenti ai gruppi neonazisti in Germania. E un rapporto riservato del­l’Europol afferma che questi gruppi mostrano crescente interesse alle armi. “

Alex Zanotelli,Lettera alla tribù bianca, Feltrinelli (collana Serie Bianca); prima edizione marzo 2022. [Libro elettronico]

“ Finché il mondo resterà diviso in Stati sovrani, ciascuno di essi si porrà il fine della potenza militare, e la conseguenza sarà il potenziamento industriale, giacché non si dà l'una senza l'altro. Che importerà ai governanti che vadano in malora l'ambiente naturale e il patrimonio artistico? Meno che niente. E meno che niente importerà, purtroppo, ai governanti, finché le necessità della difesa appariranno loro preminenti.
Il nemico anche per gli ecologi è dunque lo Stato sovrano armato. La battaglia ecologica ha una sola possibilità di riuscire vittoriosa: che venga prima vinta la battaglia antimilitarista.
Compagni marxisti mi obiettano che il principale male da combattere è il capitalismo. Compagni cattolici mi obiettano che la cosa più importante è la rinascita dello spirito cristiano. Gli uni e gli altri non danno peso alla divisione del mondo, qualcuno arriva perfino a sostenere la tesi aberrante che l'armamento è un bene, in quanto giova all'equilibrio delle forze (cioè, all'equilibrio del terrore).
Alcuni tra gli stessi compagni anarchici mi rimproverano di fare un discorso parziale: separata dalla lotta contro lo Stato, la lotta contro il militarismo sarebbe inefficace. È vero il contrario: la lotta contro il militarismo può tanto più facilmente trovare aderenti quanto più è separata dalla lotta contro lo Stato (o contro il capitalismo, o contro lo spirito anticristiano).
Lo Stato, il capitalismo, lo spirito anticristiano sono mali anche per me: ma l'era atomica ha imposto un ordine di priorità che dobbiamo rispettare. Non è che i problemi della libertà e della giustizia siano stati vanificati. Ma non è da essi che si può più partire per impostare una battaglia politica. La spinta umanitaria che ci ha costretto a occuparci di politica e a diventare antifascisti resta integralmente valida: ma in seno ad essa l'ordine di priorità nella soluzione dei problemi è cambiato. Solo la battaglia per la pace può includere anche le altre.
La battaglia per la giustizia sociale, cioè la battaglia contro il capitalismo, o quella per la rinascita dello spirito cristiano, o quella contro lo Stato, non devono diventare alibi per disertare la sola battaglia che sia possibile fare e che sia importante fare: quella contro il militarismo italiano.
Oggi come oggi non si vede come abbattere il capitalismo, o come far nascere una diffusa coscienza antistatalista. Mentre si vede come far nascere una diffusa coscienza antimilitarista, e come abbattere il militarismo italiano.
Ed ecco saltar su i pacifisti da strapazzo, cioè i guerrafondai travestiti da pacifisti: «Proprio dal militarismo italiano dobbiamo cominciare? Il disarmo non deve partire dai colossi che minacciano davvero la pace nel mondo, cioè dagli Stati Uniti, dall'Unione Sovietica, dalla Cina?» Rispondo parafrasando Lenin: «La catena del militarismo può essere spezzata in qualsiasi punto. L'Italia rappresenta uno degli anelli più deboli? Tanto meglio: vuol dire che noi italiani siamo facilitati in questa lotta. Spezzare la catena del militarismo nell'anello più debole, può diventare il nostro motto».
Certo, si tratterebbe di un intervento che porrebbe fine a un'istituzione millenaria. Ma quando mai la politica della sinistra è consistita nello stare a vedere, nel lasciar correre, nel tenere in piedi tutto quello che il passato ci ha trasmesso, nel lasciare che il mondo vada alla deriva? La politica della sinistra è sempre consistita nel rinnovare, nello svecchiare. “

Carlo Cassola,La lezione della storia. Dalla Democrazia all’Anarchia: una via per salvare l’Umanità, BUR, 1978¹; pp. 93-95.

“ Si restava cristiani perché conveniva, ma invero, quanto al miracolo, alla resurrezione… stendiamo un velo pudico su queste ingenuità.
Nondimeno bisognava pure far finta di crederci, perché uno dei tanti vantaggi del cristianesimo era quello di sviluppare lo spirito di obbedienza tra i poveri ed i subordinati: «che il povero si glorifichi della sua umiliazione, (che comodità per chi lo sfrutta!), sottomettetevi». È Dio che lo dice, la religione è un pilastro dell'ordine sociale. Inutile insistere su questi temi oggi ben noti. È proprio vero che la borghesia ha fatto della religione quello che Marx le imputò di averne fatto. L’analisi è inconfutabile, l’alienazione spirituale si unisce necessariamente a quella economica. Il cristianesimo era uno strumento di governo ulteriore, ma era necessario renderlo utilizzabile ed adatto a un tale servizio. Credere in Dio è bene per i poveri, i negri e i fanciulli. «Dio è il punto d’appoggio su cui applicare la mia leva per farli muovere».
Ma tutto questo presuppone appunto che Dio non esista. Se esiste, non posso strumentalizzarlo. Per rendere socialmente utile la religione, cosa che la borghesia ha fatto in modo magistrale, occorre che l’ente cui questa religione si indirizza sia qualcosa di inerte, senza nessun genere di autonomia. Sono io che creo Dio perché Dio trovi posto nella mia scacchiera: assai utile l’Alfiere, ma è la mia mano che lo sposta. E, di conseguenza, la religione diventa puro formalismo: liturgia, teologia, morale, vita, tutto deve essere reso formale, diventare cerimonia, astrazione, contabilità, calcolo.
L’ateismo radicale del borghese non è il rozzo machiavellismo a cui l’hanno ridotto i nostri spregiudicati moderni. Esso è legato alla sua potenza demiurgica: impossibile rimodellare il mondo senza essere del tutto affrancati dal peso di Dio. E questo borghese lo è. Sa di essere il solo capace di tale nuova creazione, e non chiede aiuto. Strano destino del borghese, questo, di servire da modello per chi più lo detesta. Quando Nietzsche, spregiatore instancabile del borghese, preannunzia l’avvento di un al di là dell'uomo sotto l’aspetto del superuomo, di chi fa il ritratto, se non di quello che è già stato il borghese? Colui che non cessava di combattere gli aveva inoculato il virus di una certa visione del mondo culminante nell'esaltazione oltre ogni limite dell'uomo senza vincoli: e tale era nella sua segreta duplicazione perfettamente mascherata, perfettamente ingannevole, il suo nemico portato al parossismo; e solo perché il borghese aveva ibernato, cristallizzato Dio, Nietzsche poteva, dopo di lui, proclamarne la morte. “

Jacques Ellul,Metamorfosi del Borghese, traduzione a cura di Eugenio Ripepe, casa editrice Giuffrè (collana Valori politici n° 13), 1972.

[Edizione originale: Métamorphose du bourgeois, Paris, Calmann-Lévy, 1967]

“ Influente nell'aristocrazia, erede della dinastia intellettuale che faceva capo alla scuola del Museo, Ipazia era soprattutto maestra del «modo di vita ellenico» (hellenikè diagogè), sostanzialmente politico, cui l'aristocrazia pagana s'ispirava: lo conferma Suida, ancora qui da identificarsi in Esichio, secondo cui era «fluente e dialettica (dialektikè) nel parlare, accorta e politica (politikè) nell'agire, così che tutta la città davvero la venerava e le rendeva omaggio». «Dalla cultura ellenica (paidèia) le derivava», come ci informa Socrate Scolastico, «un autocontrollo e una franchezza nel parlare (parrhesìa)» per cui «si rivolgeva faccia a faccia ai potenti e non aveva paura di apparire alle riunioni degli uomini: per la sua straordinaria saggezza, tutti costoro le erano deferenti e la guardavano, se mai, con timore reverenziale».
Ipazia era la portavoce dell'aristocrazia cittadina presso i rappresentanti del governo centrale romano e in particolare presso Oreste d'Egitto. «I capi politici venuti ad amministrare la città», riferisce Suida, «si recavano per primi ad ascoltarla, come seguitava ad avvenire anche in Atene. Poiché, se anche il paganesimo vi era finito, comunque il nome della filosofia pareva ancora grande e degno di venerazione a quanti avevano le più importanti cariche cittadine». La filosofa influenzava direttamente e fortemente la politica interna della sua città: «Tu hai sempre avuto potere. Possa tu averlo a lungo, e possa tu di questo potere fare buon uso», si legge in una lettera di raccomandazione che le indirizzò l'allievo Sinesio.
Ma proprio da questo potere locale e clientelare prende le mosse la trasformazione delle classi dirigenti, avviata nelle sedi provinciali dal legittimarsi politico della Chiesa. La polistardoantica e bizantina vedrà d'ora in poi il vescovo, non più il filosofo, farsi consigliere e «garante civico» del rappresentante statale. «Il vescovo cristiano doveva avere il monopolio della parrhesìa!», ha scritto Peter Brown, proponendo, appunto sul caso di Ipazia, un sillogismo storico fin troppo immediato: se nella fase di trapasso dal paganesimo al cristianesimo il ruolo del filosofo e del vescovo vengono a sovrapporsi, che cosa fa il vescovo, se non eliminare il filosofo? «Phthonospersonificato si levò in armi contro di lei», denuncia Socrate. La gelosa malevolenza, lo phthonosdei cristiani per i pagani secondo tutte le fonti, e secondo un luogo comune della letteratura antica, è causa della fine violenta non solo di Ipazia ma insieme dell'antico modo di vita della polis, cui Suida accenna nel suo sfumato riferimento ad Atene. “

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Brano tratto da Ipazia, l’intellettuale, saggio di Silvia Ronchey raccolto in:

AA. VV.,Roma al femminile, a cura di Augusto Fraschetti, Laterza (collana Storia e Società), 1994¹; pp. 215-16.

“ Nell’angoscia dell’inserimento sociale il giovane nasconde un conflitto col modello patriarcale. Questo conflitto si rivela nelle istanze anarchiche in cui viene espresso un no globale, senza alternative: la virilità rifiuta di essere paternalistica, ricattatoria. Ma senza la presenza del suo alleato storico, la donna, l’esperienza anarchica del giovane è velleitaria, ed egli cede al richiamo della lotta organizzata di massa. La ideologia marxista-leninista gli offre la possibilità di rendere costruttiva la sua ribellione affiancandosi alla lotta del proletariato a cui è delegata anche la sua liberazione. Ma così facendo il giovane viene risucchiato in una dialettica prevista dalla cultura patriarcale, che è la cultura della presa del potere; mentre crede di aver individuato col proletariato il nemico comune nel capitalismo, abbandona il terreno suo proprio della lotta al sistema patriarcale. Egli pone tutta la sua fiducia nel proletariato come portatore della istanza rivoluzionaria: vuole svegliarlo se gli sembra intorpidito dai successi dei sindacati e dal tatticismo dei partiti, ma non ha dubbi che quella è la nuova figura storica. Facendo la lotta per un altro il giovane ancora una volta subordina se stesso che è esattamente quanto si è sempre voluto da lui. La donna, la cui esperienza femminista ha due secoli di vantaggio su quella del giovane, e che all’interno della rivoluzione francese prima, di quella russa poi ha cercato di unire la sua problematica a quella dell’uomo sul piano politico, ottenendo solo il ruolo di aggregato, afferma che il proletariato è rivoluzionario nei confronti del capitalismo, ma riformista nei confronti del sistema patriarcale.
Secondo una notazione di Gramsci, «i giovani della classe dirigente (nel senso più largo) si ribellano e passano alla classe progressiva che è diventata storicamente capace di prendere il potere: ma in questo caso si tratta di giovani che dalla direzione degli anziani di una classe passano alla direzione degli anziani di un’altra classe; in ogni caso rimane la subordinazione reale dei giovani agli anziani come generazione» (citazione tratta da A. Gramsci, Gli intellettuali e l’organizzazione della cultura). “

Carla Lonzi,Sputiamo su Hegel.

[ 1ª edizione: casa editrice “Rivolta Femminile”, 1970 ]

“ Ponendo l’interrogativo della durata possibile del regime è interessante tracciare alcuni paralleli storici. Alcune delle condizioni che hanno provocato la prima e la seconda rivoluzione russa esistono forse anche oggi: gruppi di caste inamovibili; sclerosi di un sistema statale entrato nettamente in conflitto con le esigenze dello sviluppo economico; burocratizzazione del sistema e, quindi, creazione di una classe privilegiata; contraddizioni nazionali in seno ad uno Stato plurinazionale e situazione privilegiata di alcune nazioni. Eppure, se il regime zarista si fosse protratto più a lungo, avrebbe forse resistito ad una pacifica modernizzazione, a patto che il gruppo dirigente non avesse valutato fantasticamente la situazione generale e le proprie forze e non avesse svolto all’esterno una politica espansionista che provocò un eccesso di tensione. In effetti, se il governo di Nicola II non avesse iniziato la guerra contro il Giappone, non avremmo avuto la rivoluzione del 1905-1907 e, se non fosse stata dichiarata la guerra alla Germania, la rivoluzione del 1917 non sarebbe scoppiata*.
Perché qualsiasi indebolimento interno va sempre di pari passo con eccessive ambizioni di politica estera? Non so rispondere. Forse si cerca nelle crisi esterne uno sfogo delle contraddizioni interne. Forse, al contrario, la facilità con la quale viene soffocata qualsiasi opposizione interna crea l’illusione di una potenza illimitata. Forse l’esigenza di avere un nemico al di fuori, nutrita dagli obbiettivi di politica interna, crea una tale inerzia, che è impossibile fermarsi, tanto più che tutti i regimi totalitari si logorano fino all’estinzione senza accorgersene. Perché Nicola I ebbe bisogno della guerra di Crimea che mandò in rovina il regime da lui costituito? Perché Nicola II ebbe bisogno della guerra contro il Giappone e contro la Germania? Il regime di oggi compendia in sé in modo curioso aspetti dei regni di Nicola I e di Nicola II ed in politica interna, direi anche di quello di Alessandro III. Ma è ancora meglio paragonarlo al regime bonapartista di Napoleone III. Se questo paragone è valido, il Medio Oriente sarà il suo Messico, la Cecoslovacchia i suoi Stati Pontifìci e la Cina il suo Impero Germanico. “

*Rigorosamente parlando, non è lui che ha cominciato queste due guerre, ma ha fatto di tutto perché scoppiassero.

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Andrej Amalrik,Sopravviverà l'Unione Sovietica fino al 1984?, introduzione di Carlo Bo, traduzione dal russo di Caterina Darin, Coines edizioni spa, Roma, 1970¹; pp. 57-59.

[1ª Edizione originale: Просуществует ли Советский Союз до 1984 года?, Alexander Herzen Foundation, Amsterdam, 1970]

L’IMPERIALISMO È GUERRA

“ L'attuale crisi economica che coinvolge il sistema imperialistico nel suo complesso è crisi di sovrapproduzione assoluta di capitale rispetto all'intera area capitalistica occidentale. Il mezzo con cui l'imperialismo ha sempre storicamente risolto le sue periodiche crisi di sovrapproduzione è stata la guerra. Infatti la guerra permette innanzi tutto alle potenze imperialiste vincitrici di allargare la loro base produttiva a scapito di quelle sconfitte, ma soprattutto guerra significa distruzione di capitali, merci, e forza lavoro, quindi possibilità di ripresa del ciclo economico per un periodo di tempo abbastanza lungo.
All'imperialismo in questa fase si ripropone quindi il dramma ricorrente della produzione capitalistica: ampliare la sua area per poter ampliare la sua base produttiva.
Infatti rimanere ancora “ristretto” nell'area occidentale, significa per l'imperialismo accumulare contraddizioni sempre più laceranti: la concentrazione dei capitali cresce in modo accelerato, il saggio di profitto raggiunge valori bassissimi, la base produttiva diviene sempre più ristretta, la disoccupazione aumenta paurosamente. A brevi e apparenti momenti di ripresa seguono inevitabilmente fasi recessive sempre più gravi e si determina così di fatto un processo di crisi permanente (lo svolgersi della crisi in questi ultimi anni lo dimostra ampiamente).
Si pone perciò all'imperialismo la necessità sempre più impellente di allargare la sua area. Ma questo allargamento può avvenire solo a spese del Social-Imperialismo (URSS e paesi del Patto di Varsavia) e conduce quindi inevitabilmente allo scontro diretto USA-URSS.
Gli scontri parziali per “interposte persone” a cui stiamo assistendo in Medio Oriente, Africa non sono che i primi passi di questo processo.
È questa quindi la prospettiva storica che il capitale monopolistico multinazionale pone in questa fase a se stesso e al movimento rivoluzionario. All'interno di questa prospettiva storica la posizione del proletariato non può che oggettivamente porsi come urto frontale e decisivo con il dominio imperialista e la sua diretta tattica non può che essere fissata da questa stessa prospettiva storica: o guerra di classe nella metropoli imperialista o terza guerra imperialista mondiale.
Le varie potenze imperialiste infatti non possono farsi guerra se non hanno il proprio retroterra “pacificato e solidale” per poter così sostenere la durezza dello scontro. Si potrebbero fare molti esempi di guerre interimperialistiche che si sono concluse appena si è presentato anche solo il pericolo della rivoluzione comunista e i diversi imperialismi, che prima si mostravano acerrimi nemici, si sono uniti contro il proletariato insorto in armi. Ne bastino due: la Comune di Parigi e la Rivoluzione d'Ottobre. “

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Brano tratto dalla Risoluzione della direzione strategica delle Brigate Rosse, testo diramato nel febbraio 1978 e raccolto in:

Moro: una tragedia italiana - le lettere, i documenti, le polemiche, a cura di Giorgio Bocca, Milano, Bompiani (collana Tascabili / Saggi - Storia contemporanea, n°116), maggio 1978¹; p. 51.

“ Come potremmo mai non condividere le sofferenze mortali subite dall'Ucraina in epoca sovietica? Ma da dove scaturisce l'intento di asportare l'Ucraina da un corpo vivo (ed anche quella che da tempi remoti, nel corso dei secoli, non è stata mai Ucraina, come il Dikoe Pole —«Terra selvaggia» — dei nomadi, o la Crimea, il Donbass, fin quasi ad arrivare al Mar Caspio)? E se «autodeterminazione delle nazioni» ha da essere, allora che davvero ogni nazione decida le proprie sorti. E questo non si risolve prescindendo da una votazione popolare.
Staccare oggi l'Ucraina significa passare attraverso milioni di famiglie e di persone: quanta commistione di popolazioni; intere regioni e città a predominanza russa: quante persone imbarazzate a scegliere tra le due nazionalità; quanti di sangue misto; quanti matrimoni misti, che peraltro fino ad oggi nessuno considerava «misti». Nel fulcro della popolazione radicata non c'è ombra di intolleranza tra ucraini e russi.
Fratelli! Non ci serve questa crudele separazione! Sarebbe il frutto dell'ottundimento degli anni comunisti. Insieme abbiamo sofferto l'epoca sovietica, insieme siamo precipitati in questo baratro, e insieme ne usciremo.
E in due secoli: quale folla di nomi illustri all'incrocio delle nostre due culture. Nella formula di M.P. Dragomanov: «Indivisibili, ma neppure confondibili». Occorre aprire in spirito di amicizia e disponibilità la strada alla cultura ucraina e bielorussa non solo sui territori dell'Ucraina e Bielorussia, ma anche della Grande Russia. Nessuna russificazione forzosa (e peraltro nessuna ucrainizzazione forzosa, quale si ebbe verso la fine degli anni Venti), ma libero sviluppo parallelo di ambedue le culture, e classi scolastiche con l'insegnamento nelle due lingue, a scelta dei genitori.
Certo, se il popolo ucraino desiderasse effettivamente separarsi, nessuno potrebbe impedirglielo con la forza.
Il nostro spazio è multiforme, e solo la popolazione localepuò decidere le sorti della propria località, della propria regione, mentre ogni nuova minoranza recentemente formatasi in questa località deve contare sulla medesima non coercizione. “

Aleksandr SolženicynCome ricostruire la nostra Russia? - Considerazioni possibili, traduzione di Dario Staffa, Rizzoli, ottobre 1990¹; pp. 21-23. (Corsivi dell’autore)

[ 1ª Edizione originale: Как нам обустро́ить Росси́ю? - посильные соображения, Volgogradskaya Pravda, 21 settembre 1990 ]

“ La filosofia cui si ispira la concezione della «casa comune europea» esclude ogni conflitto armato, la stessa possibilità dell'impiego della forza o della minaccia della forza, innanzi tutto militare. Al posto della dottrina della deterrenza, essa propone la dottrina della moderazione. E non si tratta di sfumature di concetti, ma di una logica dettata dalla stessa realtà dello sviluppo europeo.
I nostri obiettivi ai negoziati di Vienna sono noti. Noi riteniamo pienamente realizzabile — e anche il Presidente Usa è dello stesso avviso — l'abbassamento sostanziale, nell'arco di 2-3 anni, del tetto degli armamenti in Europa, naturalmente eliminando tutte le asimmetrie e gli squilibri. Sottolineo tuttele asimmetrie e gli squilibri. Non sono ammissibili due diversi metri di misura. Siamo convinti che sia tempo di avviare anche i negoziati sui mezzi nucleari tattici tra tutti i paesi interessati. L'obiettivo finale è la completa eliminazione di quest'arma. Essa minaccia gli europei, che non hanno alcuna intenzione di farsi la guerra l'uno contro l'altro. Allora a cosa e a chi serve?
Liquidare gli arsenali nucleari oppure conservarli a qualsiasi costo? La strategia della deterrenza nucleare rafforza o mina la stabilità? Su questi problemi le posizioni della Nato e del Trattato di Varsavia appaiono diametralmente opposte. Ma noi non drammatizziamo le divergenze. Noi cerchiamo soluzioni e invitiamo i nostri partner a fare altrettanto. Infatti consideriamo la liquidazione dell'arma nucleare come un processo graduale. E parte della distanza che ci separa dalla completa eliminazione dell'arma nucleare gli europei possono percorrerla insieme, senza rinunciare alle propri posizioni: l'Urss, restando fedele ai propri ideali non nucleari, l'Occidente alla concezione della «deterrenza minima».
Tuttavia occorre comprendere cosa s'intende per «minima», e dov'è il limite, varcato il quale il potenziale di ritorsione nucleare si trasforma in potenziale offensivo. Ci sono molti punti oscuri, e la reticenza è fonte di sfiducia.
Allora perché gli esperti di Urss, Usa, Gran Bretagna e Francia, nonché degli Stati nei cui territori è dislocata l'arma nucleare, non discutono approfonditamente questi problemi? Se essi arrivassero a una qualche valutazione comune, il problema si semplificherebbe anche a livello politico.
Se i paesi della Nato dimostreranno la propria disponibilità a negoziare con noi sugli armamenti nucleari tattici, potremo — consultandoci, naturalmente, con i nostri alleati — avviare senza indugi un'ulteriore riduzione unilaterale dei nostri missili nucleari tattici di stanza in Europa. “

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Brano tratto dal discorso dell’ultimo segretario del Pcus all’assemblea del Consiglio d’Europa riunita a Strasburgo il 6 luglio 1989; il testo (intitolato Appello all’Europa: dall’Atlantico agli Urali) è in:

Mikhail GorbaciovLa casa comune europea, A. Mondadori (collana Frecce; traduzione in italiano a cura dell’editore sovietico), 1989¹; pp. 216-217.

[Prima edizione: Агентство печати «Новости» (АПН), Mosca, 1989]

“ Nel lontano 2006, quando da poco era tornata al governo la coalizione di centro-sinistra, Luciano Gallino scrisse sul quotidiano «la Repubblica», di fronte alla consueta recrudescenza di morti sul lavoro, che il solo provvedimento necessario era l’immissione massiccia di nuovi ispettori del lavoro. Il 29 dicembre 2007 moriva la settima vittima della ThyssenKrupp. Dopo quindici anni siamo ancora lì. Anzi la situazione è, se possibile, peggiorata. Le tecniche volte ad «eludere o violare» le norme (per dirla col presidente Mattarella) si sono moltiplicate: prima tra tutte la proliferazione di sub-appalti che rende arduo identificare chi sanzionare, ammesso che si voglia davvero – come si esprime «il dicastero» – prendere «misure sospensive e interdittive». Per chi non accetta il cosiddetto «green pass» c’è l’immediata sospensione dello stipendio, per le aziende omicide si studiano «misure sospensive e interdittive».
Il 5 agosto del 2021 il «Corriere della Sera» dedicò un’intera pagina (p. 23) al problema, in un intervento a cura di Riccardo Bruno. Titolo: Ogni giorno 3 morti sul lavoro.
Il rischio è che l’espressione «sinistra di governo» significhi ormai soltanto «che occupa dei posti nel governo». Spettacolo di mediocrità e impotenza. Congedandosi dai giornalisti in procinto di andare in vacanza, il 6 agosto, il presidente del Consiglio [Mario Draghi] ha pensato che un cenno alla morìa sul lavoro andasse fatto. Ha tentato di fare il nome di Luana D’Orazio ma, non essendo molto informato, ha soggiunto: «almeno credo che si chiamasse così». “

Luciano Canfora,La democrazia dei signori, Laterza, gennaio 2022 (Corsivi dell’autore).

[Libro elettronico]

“ La nostra organizzazione del tempo ha ereditato dalla Mesopotamia una delle sue divisioni temporali «magiche»: la settimana di sette giorni. L'origine di questa settimana sembra sia la seguente (anziché quella che la vede come una semplice divisione in quattro del mese lunare — il quale ultimo conta 29,5 giorni e le fasi della luna, infine, non sono uguali): a Babilonia, il numero 7 sarebbe stato nefasto, di modo che non si doveva intraprendere nulla nei giorni settimo, quattordicesimo, ventunesimo e ventottesimo del mese; questi giorni diventando anzi giorni di completo riposo per le classi agiate. Questa abitudine del riposo ogni sette giorni (in quanto il numero sette era nefasto) è passata nella Bibbia (insieme a una gran quantità di miti mesopotamici) sotto la forma del riposo settimanale (calco del riposo di Dio dopo la creazione: la spiegazione mitica è mutata, dimenticando il numero 7) e ci è così pervenuta. Si noterà peraltro che ogni giorno della nostra settimana è denominato secondo uno degli astri mobili che conoscevano i Mesopotamici: il Sole, la Luna e i cinque pianeti più vicini (lunedì: Luna; martedì: Marte; mercoledì: Mercurio; giovedì: Giove; venerdì: Venere; sabato: Saturno; quanto alla domenica, essa è diventata invece il giorno del Signore — latino ecclesiastico dies dominicus ma la sua denominazione solare ancora è visibile in inglese, Sunday, giorno del sole).
Per concludere questa questione dell'organizzazione del tempo in Mesopotamia, ricordiamo che il giorno è diviso in dodici berli uguali (ciascuno di essi equivale a due delle nostre ore). L'inizio del giorno è stato dapprima fissato al sorgere del Sole; poi i Caldei scelsero la mezzanotte (proprio come facciamo attualmente noi), probabilmente perché era difficile conservare al giorno una durata costante di dodici berúfacendolo cominciare al sorgere del Sole (la cosa più semplice sarebbe stata di farlo cominciare a mezzogiorno, quando il Sole passa al meridiano, passaggio che è facilmente reperibile con lo gnomone o con il polos; ma una tale soluzione è difficilmente compatibile con la concezione del giorno come unità amministrativa o unità di tempo di lavoro). “

André Pichot,La nascita della scienza. Mesopotamia, Egitto, Grecia antica, traduzione di Marina Bianchi, Edizioni Dedalo (collana Storia e civiltà n° 34), Bari, 1993¹; pp. 140-141.

[1ª Edizione originale: La Naissance de la science, Tome I. Mésopotamie, Égypte, Tome II. Grèce présocratique, Éditions Gallimard, coll. Folio/Essai nos 154 et 155, 1991]

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