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“ In quei giorni, il dottore vide Pamfíl Palých con la famiglia. Sua moglie e i bambini avevano trascorso tutta l’estate fuggendo sulle strade polverose, sotto il cielo aperto. Erano terrorizzati dagli orrori vissuti e ne aspettavano altri. La moglie e i tre figli, un maschietto e due bambine, avevano i capelli bianchi, color lino, bruciati dal sole, e bianchi severi sopraccigli sui visi abbronzati e riarsi dal vento. I bambini erano ancora troppo piccoli per recare altri segni di quanto avevano sofferto, ma dal volto della madre, traumi psichici e pericoli avevano cancellato ogni traccia di vitalità, lasciando solo l’arida regolarità dei lineamenti, le labbra strette e sottili, come un filo, la tesa immobilità della sofferenza pronta solo a difendersi.
Pamfíl li amava immensamente, specie i bambini, e con una punta dell’ascia ben affilata intagliava per loro giocattoli di legno, leprotti, orsacchiotti e galletti, con una maestria che stupiva il dottore.
Quando erano arrivati, Pamfíl era diventato allegro, si era ripreso e aveva cominciato a rimettersi. Ma presto si seppe che, a causa della nociva influenza che le famiglie esercitavano sul morale degli uomini, i partigiani sarebbero stati divisi dai loro cari, il campo liberato da quell’inutile peso e il convoglio delle donne avrebbe dovuto accamparsi, sotto una sufficiente scorta armata, a una certa distanza, per passarvi l’inverno. Erano certamente più le voci che correvano in proposito che non le disposizioni concrete. Il dottore non credeva che la misura potesse essere attuata. Ma Pamfíl si incupì e le allucinazioni ricominciarono. “

Borís Pasternàk,Il dottor Živago, Einaudi (collana Nuovi Universali; traduzione di Pietro Zveteremich, riveduta da Mario Socrate e Maria Olsoufieva; prefazione di Eugenio Montale), 1964; pp. 416-417.

[Prima edizione mondiale: Giangiacomo Feltrinelli Editore, collana «I Narratori», 15 novembre 1957]

“ [U]na mattina di gennaio, sono andato a casa di Francesco Cossiga, insieme ad altri. Stavamo scrivendo un film per la tv su Aldo Moro. Ci ha accolti la figlia, gentile e distante. Ci ha accompagnati nel salone, dove c'erano foto incorniciate, appese al muro o sparse sui tavolini: ritraevano Cossiga insieme alle più grandi personalità della storia recente. Dopo un po’ lui è arrivato, camminando con passetti piccoli, trascinando scarpe morbide da casa: indossava una tuta adidas mal combinata con dei pantaloni di tuta champion. Si è seduto e ha subito detto: voi lo sapete che - e ci ha raccontato un pettegolezzo su Moro che non riporterò perché riguardava la vita privata e non pubblica. Dirò soltanto che è stato molto sorprendente e soprattutto spiacevole perché ci ha chiesto se lo avremmo messo nel film. Poi ha cominciato a raccontare facendo duemila digressioni, con brillantezza e ironia (e anche autoironia). Un narratore vero, che si sentiva già dentro la Storia, molto colto sulla politica e molto propenso a parlar male degli altri; ma allo stesso tempo una persona intelligente che dava giudizi acuti. Ha parlato a lungo del suo rapporto con Moro, e di quei 55 giorni del 1978. Ricordava tutto, muoveva la Storia un po’ come gli risultava favorevole, tendeva sia a sdrammatizzare alcune coincidenze tragiche, sia a rendere più ambigui certi passaggi: Moro non si fidava di Andreotti, da molto tempo non aveva più buoni rapporti con Zaccagnini, nei suoi progetti ero io il suo successore.
Ha anche detto che i brigatisti hanno ucciso Moro perché ormai le forze dell'ordine li avevano braccati. Ha parlato del dolore di quella prima lettera, ma cercando di passare ad altro al più presto, e quindi denunciando quel dolore come profondo. E soprattutto ha detto senza esitazioni una frase che serviva a minimizzare la volontà di non liberare Moro, ma non la minimizzava: certo, io e Andreotti ci siamo detti che se Moro fosse uscito vivo da lì, per noi sarebbe stata la fine. Ha detto questa frase come se riportasse una riflessione tra due persone che poi sapevano di dover agire in altro modo, come se fosse una chiacchierata trascurabile. Solo che non ha avuto l'effetto in sordina che desiderava, perché quella frase pronunciata con serenità ci ha fatto rabbrividire. Ho sentito con nettezza che avremmo voluto guardarci, ma nessuno di noi lo ha fatto, e abbiamo finto che fosse una frase come un'altra. “

Francesco Piccolo,Il desiderio di essere come tutti, Einaudi (collana Super ET), 2017 [1ª ed.ne 2013]; pp. 218-219.

“ [M]entre attaccavamo i cavalli per tornare a casa, mio padre vide un vecchio negro che se ne veniva via a piedi dal combattimento, strascinando le ciabatte in mezzo alla polvere, e lo guardò bene e poi gli disse, ehi, zio, ma tu non sei il Ned di Martin?, e quello si tolse il cappello e disse, sissignore, sono proprio io, e mio padre gli disse, sei stato a vedere il combattimento, eh?, e quello disse, sissignore, e mio padre disse, ma ai vostri tempi c’era di meglio, eh?, e quello sorrise, con una bocca sdentata, e disse, sì, signore, noialtri eravamo meglio, ma cosa farci?, il mondo va sempre peggiorando, e mio padre disse, parole sante, Ned, e arrivederci, e mentre tornavamo a casa mio padre mi disse che quello era stato uno dei più forti lottatori dei vecchi tempi, e aveva fatto guadagnare al suo padrone dei bei dollari, e anche lui se n’era messi da parte un bel po’ con le scommesse, proprio così, che per un negro si poteva dire che stava bene, con quel che aveva guadagnato; già, già, disse mio padre, e io vedevo benissimo che s’era perso nei ricordi, era uno dei più forti, e che stallone, anche!, sogghignò; e io ne approfittai che non c’era lì mia madre, perché lei non gli avrebbe mai lasciato fare quei discorsi, e gli dissi, come sarebbe a dire, eh, papà?, e lui mi guardò e tacque, e poi disse, oh, be’, tanto non c’è niente che tu non possa sapere, e mi raccontò che era grazie a Ned che il vecchio Ebenezer Byrd aveva impregnato per la prima volta quella negra che s’era comprato per far razza; appena gli era entrata in casa, era andato da Sam Martin, perché quello lì era un suo negro, e per questo lo chiamavano il Ned di Martin, ed era il più forte lottatore della contea, e lui convinse Sam Martin a darglielo in affitto per un mese, e ogni notte lo chiudeva con la negra, e con tutto che il Ned di Martin era sposato e al principio aveva detto al suo padrone che lui non ne voleva sapere, be’, di lì a nove mesi quella negra mise al mondo due gemelli, e il vecchio Ebenezer e sua moglie, raccontava mio padre, erano fuori di sé dalla gioia, e si facevano in quattro per dare alla negra tutto quello che voleva, purché avesse abbastanza latte e i bambini crescessero sani; e uno poi crepò quasi subito, ma l’altro visse, e da lì cominciò la loro fortuna. “

Alessandro Barbero,Alabama, Sellerio (Collana La memoria n° 1195), Palermo, 2021¹; pp. 228-30.

“ Il capo reparto stava in fondo e si vedeva di rado. I pezzi arrivavano sui nastri trasportatori, contati e controllati; tanti pezzi all’ora. Dopo una settimana riuscivo a seguire il ritmo del lavoro e avevo tempo ogni tanto per alzare la testa. Alzare la testa come se potessi farlo contro i miei mali e le tristi congiure.
Fuori l’inverno correva e si arrampicava su quelle querce, sopra i capannoni. La sera lo vedevo sul lago bianco e stretto.
Fino a tutto gennaio neve non tanta ma sovente, ogni due o tre giorni, senza attaccare. La guardavo dalla fabbrica e capivo che era inutile e che non avrebbe resistito.
Intanto continuavo il mio lavoro in mezzo agli altri, in silenzio, senza amicizie. Pinna non lo vedevo quasi piú e Gualatrone lo incontravo qualche volta alla mensa; ma era molto impegnato per l’amore e il partito. L’assistente sociale, dopo il trasferimento e la punizione, non l’avevo piú vista. Non andavo piú al cinema tutte le sere, perché a ora tarda era troppo freddo, anche con il cappotto.
In quel reparto del montaggio tutto mi sembrava nuovo e io stesso non avevo piú i risentimenti di prima.
Soffrivo ma con piú calma. Tutto l’ambiente, piú largo e piú luminoso, sembrava un posto inesistente, che dovesse sparire presto. Eravamo una massa confusa, che non chiedeva nulla, nemmeno a ciascuno di noi.
Eravamo tutti distratti anche se i nostri pensieri si accanivano. A certe ore nel reparto suonava la musica. Io l’ascoltavo e mi faceva bene. Spesso però mi ricordava il sanatorio, dove i malati cominciano ad aprire la radio alla mattina presto. Quando suonava la musica, il capo si alzava e cominciava a camminare su e giú nel corridoio in mezzo ai tavoli. Non guardava e non diceva niente a nessuno. Si chiamava Salvatore e faceva collezione di francobolli. In tutto il tempo che stetti con lui mi parlò soltanto due o tre volte, quando doveva farmi qualche comunicazione dell’infermeria o dell’Ufficio Personale.
Accompagnava le parole con un biglietto. Ricordo che per firmare impuntava la penna un attimo prima della esse maiuscola. Il suo silenzio era come tutto quello del reparto e nei suoi occhi non si leggevano intenzioni.
Cosí rimasi a lungo in quel posto senza seccature e ormai non m’importava piú nulla della qualifica e del lavoro.
Montare i pezzi era noioso ma anche faticoso, di una fatica che mi prendeva e mi accompagnava per tutta la giornata come un cattivo umore. “

Paolo Volponi,Memoriale, Garzanti, 1976 [1ª edizione 1962]; pp. 195-196.

“ Guarda, L'eterosessuale che sì sposa è come uno che diventa prete: fa voto di castità, ma senza saperlo fino a tre, quattro, cinque anni dopo. Per l'eterosessuale virile la natura del matrimonio comunemente inteso non è meno soffocante - date le preferenze sessuali di un eterosessuale virile - di quanto lo sia per il gay o per la lesbica. Oggi, però, anche i gay si vogliono sposare. Un matrimonio in chiesa. Due, trecento testimoni. E aspetta che vedano dove va a finire il desiderio che li ha fatti diventare gay. Mi aspettavo di più da questa gente, invece salta fuori che anche in loro non c'è il minimo realismo. Anche se credo che molto dipenda dall'Aids. Il Declino e l'Ascesa del Preservativo: ecco la storia sessuale della seconda metà del ventesimo secolo. Il preservativo è tornato. E, col preservativo, il ritorno di tutto ciò che negli anni Sessanta era stato spazzato via. Quale uomo può dire di apprezzare il sesso col preservativo nello stesso modo in cui l'apprezza senza? Cosa ci trova, in realtà ? Ecco perché gli organi della digestione sono arrivati, nella nostra epoca, a competere per la supremazia come orifizio sessuale. Il bisogno urgente della mucosa. Per disfarsi del preservativo devono avere un partner fisso, e allora si sposano. I gay sono militanti: vogliono il matrimonio e vogliono arruolarsi apertamente nell'esercito ed essere accettati. Le due istituzioni che io detestavo. E per lo stesso motivo: l'irreggimentazione.
L'ultima persona che prese sul serio queste cose fu John Milton, trecentocinquant'anni fa. Mai letto i suoi scritti sul divorzio? Gli procurarono molti nemici, ai suoi tempi. Sono qui, sono tra i miei libri, con i margini fittamente annotati nei lontani anni Sessanta. «Forse che il nostro Salvatore ci aprì questa porta fortuita e accidentale del matrimonio solo per chiudercela in faccia come la serranda della morte… ?» No, gli uomini non sanno niente - o agiscono deliberatamente come se non sapessero - del lato duro, tragico, della situazione in cui si mettono. Nel migliore dei casi pensano stoicamente, Sì, capisco che in questo matrimonio prima o poi dovrò rinunciare al sesso, però lo faccio per avere altre cose più preziose. Ma capiscono a che cosa rinunciano? Essere casti, vivere senza sesso, be’, come digerirai le sconfitte, i compromessi, le frustrazioni ? Guadagnando di più, guadagnando tutti i soldi che puoi ? Facendo tutti i figli che puoi ? Questo aiuta, ma è niente rispetto all'altra cosa. Perché l'altra cosa si radica nel tuo essere fisico, nella carne che nasce e nella carne che muore. Perché solo quando scopi riesci a vendicarti, anche se solo per un momento, di tutto ciò che non ami nella vita e di tutte le cose che nella vita ti hanno sconfitto. Solo allora sei più nettamente vivo e più nettamente te stesso. La corruzione non è il sesso: è il resto. Il sesso non è semplice frizione e divertimento superficiale. Il sesso è anche la vendetta sulla morte. Non dimenticartela, la morte. Non dimenticarla mai. Sì, anche il sesso ha un potere limitato. So benissimo quanto è limitato. Ma dimmi, quale potere è più grande? “

Philip Roth,L'animale morente, traduzione di Vincenzo Mantovani, Einaudi (collana Super ET), 2021֠⁹; pp. 50-52.

[ Edizione originale: The Dying Animal, Houghton Mifflin Publishing, 2001 ]

“ Tutti i giurati portavano all’occhiello della giacca il distintivo del partito fascista; ma se a ciascuno di loro, confidenzialmente, fosse stato domandato se si sentiva fascista, con qualche esitazione avrebbe risposto di sì; e se la domanda gli fosse stata fatta ancor più confidenzialmente, dentro ristretta cerchia e aggiungendo un « veramente », uno - pare di poter dire - avrebbe nettamente risposto di no, mentre gli altri avrebbero evitato il sì: e non per prudenza, ma sinceramente. Non si erano mai posto il problema di giudicare il fascismo nel suo insieme, così come non se lo erano posto nei riguardi del cattolicesimo. Erano stati battezzati, cresimati, avevano battezzato e cresimato, si erano sposati in chiesa (quelli che si erano sposati), avevano chiamato il prete per i familiari morituri. E del partito fascista avevano la tessera e portavano il distintivo. Ma tante cose disapprovavano della chiesa cattolica. E tante del fascismo. Cattolici, fascisti. Ma mentre il cattolicesimo stava allora lì, fermo e massiccio come una roccia, per cui sempre allo stesso modo potevano dirsi cattolici, il fascismo no: si muoveva, si agitava, mutava e li mutava nel loro sentirsi - sempre meno - fascisti. Il che accadeva in tutta Italia e per la maggior parte degli italiani. Il consenso al regime fascista, che per almeno dieci anni era stato pieno, compatto, cominciava ad incrinarsi e a cedere. La conquista dell’Etiopia, va bene: benché non si capisse come mai ad un impero conquistato corrispondesse, per i conquistatori, un sempre più greve privarsi delle cose che prima, almeno per chi poteva comprarle, abbondavano. E poi: perché mai Mussolini era andato a cacciarsi nella guerra spagnola e in una sempre più stretta amicizia con Hitler?
E anche se si continuava a ripetere, sempre più straccamente, l’iperbole del dormire con le porte aperte, era quella porta aperta al Brennero che cominciava a inquietare: che magari non vi sarebbero affluite e dilagate le forze della devastazione e del saccheggio, ma pareva vi affluissero già e dilagassero gli stormi del malaugurio. Andava sempre peggio, insomma. E il « quieto vivere », la cui ricerca tanta inquietudine aveva dato nei secoli a coloro che vi aspiravano, cominciava a disvelarsi sempre più lontano e irraggiungibile. Il partito fascista diventava sempre più obbligante, nell’esservi dentro; e sempre più duro, nell’esservi fuori. “

Leonardo Sciascia,Porte aperte, Adelphi (collana Fabulan° 18), 1987¹; pp. 71-72.

¿Sería un mundo ficticio o sería uno real? ¿En el espacio o en la tierra? Deja volar tu imaginación y cuéntanos a quién le regalarías finalmente este libro.

¡Te esperamos en los comentarios!

Coberta de Mossèn Tronxo, de Josep Maria Ballarín, en la nova edició de 2011 per Club Editor.

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Coberta de l’edició catalana de l’Epopeia de Guilgameix, traduït per Lluís Feliu i Adelina Millet, i

Coberta de l’edició catalana de l’Epopeia de Guilgameix, traduït per Lluís Feliu i Adelina Millet, i publicat per Adesiara.


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 Qui tutto gli fa male, persino l'aspirina gli fa male. Davvero, ieri sera gli ho fatto prendere un'

Qui tutto gli fa male, persino l'aspirina gli fa male. Davvero, ieri sera gli ho fatto prendere un'aspirina perché aveva mal di denti. L'ha afferrata e ha cominciato a guardarla, cosa gli è costato per decidersi ad inghiottirla. Mi ha detto cose stranissime, che era pericolosissimo servirsi di cose che in realtà non si sa che sono, cose che sono state inventate da altri per calmare altre cose che neppure si sa che sono…
Lei sa com'è quando comincia ad almanaccare.
(…) - Una vittima della cosità, è evidente.
- Che cos'è la cosità? - disse la Maga.
- La cosità è lo spiacevole sentimento che laddove termina la nostra presunzione comincia il nostro castigo. Mi spiace di dover usare un linguaggio astratto e quasi allegorico, ma voglio dire che Oliveira è patologicamente sensibile all'imposizione di ciò che lo attornia, del mondo in cui vive, di ciò che gli è toccato in sorte, per dirla gentilmente. In una parola, gli fa schifo la circostanza. Per farla breve, il mondo gli fa male.


Julio Cortazar,Rayuela, il gioco del mondo


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 Era brusco, Calvino, di poche parole. Per timidezza, per l'abitudine al silenzio che gli veniva dag

Era brusco, Calvino, di poche parole. Per timidezza, per l'abitudine al silenzio che gli veniva dagli avi, forse un riflesso  difensivo nei confronti di un padre e di una madre autoritari, che sarebbe stato vano contrastare. L'aveva scritto lui stesso: la parola è una cosa gonfia, molle, un po’ schifosa, mentre ogni tipo di comunicazione dovrebbe essere improntata a un criterio di precisione, d’economicità.” Nella primavera del 1984 Calvino è a Siviglia con la moglie Chichita, argentina di nascita. In un albergo della città Jorge Luis Borges, cieco da tempo, incontra alcuni amici. Arrivano anche i Calvino. Mentre Chichita conversa amabilmente con il connazionale, Italo si tiene come al solito in disparte, tanto che lei ritiene opportuno avvertire: 

“Borges, c’è anche Italo…”

Appoggiato al bastone, Borges solleva in alto il mento, dice quietamente: 

L’ho riconosciuto dal silenzio”.

da I migliori anni della nostra vita, diErnesto Ferrero (Feltrinelli, 2005)


Nell’immagine Italo Calvino disegnato da Tullio Pericoli


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