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“ L'assenza del padre nella casa è una terribile presenza. Ma io non saprei dare torto, nel giorno del giudizio, a Don Sebastiano, o almeno non gli darei torto del tutto. Tutte quelle cose che si scrivono sui padri e sui figli, tutti quei drammi, sono per me letteratura, e la famosa pedagogia è paternità a freddo; e niente altro. Ciascuno è padre di se stesso e figlio di se stesso, questa è la mia idea. Don Sebastiano aveva sette figli, che sono molto più di un intero popolo per un re: e il suo sogno di laurearli tutti, che l'intelligenza dei figli incredibilmente sembrava favorire, cominciava a realizzarsi con la terribile diaspora dei più grandicelli. Come mi pare di aver detto, per andare avanti negli studi, bisognava correre l'avventura della lontana città, di Sassari o addirittura di Cagliari. Questo voleva dire per Don Sebastiano, mandare ogni mese cento lire per ogni figlio, e per il notaio di Nuoro era una cosa che metteva a dura prova le sue forze. Gli sembrava che fosse venuta fuori una nuova misura della sua ricchezza. Che un ragazzo quindicenne venisse catapultato dalla casa e dal borgo in una città lontana, in una vera città, dove non esistevano amici né conoscenti, se non qualche notaio importante che non era certo il caso di disturbare, e là, arrivato dopo una giornata di viaggio, dovesse arrangiarsi a trovare una pensioncina presso qualche vecchia zitella, privandosi di tutto; che in questo impatto col mondo potesse soffrire, non era cosa che lo preoccupasse e neppure gli passava per la mente. In fondo non era che una posta nella grande partita della sua esistenza, che giocava senza nemmeno avvedersene. La pena era di Donna Vincenza, che vedeva i figli staccarsi dal suo seno, che si alzava prima dell'alba per preparare il viatico (le cose che ciascuno amava o ella credeva che amasse), che sapeva che quello non era un principio ma una fine. A Natale e a Pasqua (il lungo viaggio e la spesa non consentivano ritorni durante l'anno) avrebbe spedito loro quei buoni dolci di mandorla e zucchero, i culurjonesdi marzapane avvolti in un'ostia e fritti, che essa stessa lavorava con l'aiuto di Peppedda, e di qualche tributaria della casa che si prestava per devota e dolente amicizia: ma sentiva che quando sarebbero tornati, per le grandi vacanze, non sarebbero più stati i suoi figli.
Donna Vincenza guardava con amore i libri che i figli raccoglievano con amore, e che essa non avrebbe mai letto. Sebastiano che ancora le saltava in grembo, voleva talvolta leggerle qualche pagina, ma essa gli chiedeva prima se erano ‘cose vere’: e l'ingenua domanda aveva una sua profondità, perché era l'inconsapevole rifiuto della fantasia. Vi era in questo un punto di contatto con Don Sebastiano, perché anch'egli non viveva che della verità, e il suo mestiere era proprio quello di registrare la verità. E invece la fantasia entrava nella casa austera coi libri, e operava silenziosamente, toccando con la sua bacchetta magica uomini e cose. “

Salvatore Satta,Il giorno del giudizio, Adelphi, 1979²; pp. 64-66.

“ Bevevano succo di lampone nel bar della hall, già piú animata da un vocio di persone sedute in poltroncine di fronte alla rotonda a vetri. Sopra lo specchio del bar un orologio senza numeri ma con i punti cardinali segnala le nove e un quarto. «È tardi per lei?» ha domandato Epstein. Il giovane ha fatto cenno di no, controllando la propria immagine allo specchio.
È un aeroporto senza piú voli di linea, con arredi di legno chiaro curati e vecchi, e su una parete la silhouette di un planisfero tagliato in verticale da lamelle di metallo azzurro con i fusi orari. «Vede, – ha detto Epstein accennando col bicchiere al pannello, – i fusi orari cosí servono a poco. Dovrebbero dividere lo spazio non per ore ma per azioni; per esempio, tutti quelli che in questo istante bevono succo di lampone da Tokyo a Buenos Aires dovrebbero essere raccordati da una linea tratteggiata; o tutti quelli che si sfiorano una guancia con la mano, o tutti quelli che guardano l’orologio pensando che altrove è un’altra ora. Ci vorrebbero molti piú fusi, intersecanti in ogni direzione, irradiati secondo linee di azione. Questo solleverebbe ognuno dal desiderio di sapere e vedere tutti quelli che nello stesso istante stanno facendo la stessa cosa che fa lui. A volte è un desiderio struggente, come un desiderio di complicità».
Brahe si è passato un dito sul sopracciglio, ha pensato un attimo che cosa era meglio fare, poi ha detto: «Sí, ma bisognerebbe scegliere un paniere di azioni. Tutte non ci possono stare. Lei dovrebbe scegliere delle azioni campione, come dei fili attorno ai quali le altre azioni simultanee e dello stesso tipo potrebbero raggranellarsi».
Epstein ha riflettuto, poi ha detto in tono pacato: «Azioni di gioia. Anche moderata, ma solo azioni di gioia» e ha guardato in là, verso un manifesto incorniciato dove un trimotore Swissair passava a volo radente su cammello e cammelliere, fermi nel deserto. “

Daniele Del GiudiceAtlante occidentale, Einaudi, 1985.

“ Anche se siete genitori che credono di non sapere granché della natura, potete fare comunque tanto per vostro figlio. Quando siete insieme a lui, ovunque vi troviate e qualunque siano i vostri mezzi, potete alzare lo sguardo al cielo: alla bellezza dell’alba e del crepuscolo, alle nuvole in movimento, alle stelle di notte. Potete ascoltare il vento, sia che soffi maestoso nella foresta o che intoni un ritornello a più voci attorno alle grondaie di casa o agli angoli del vostro palazzo; e, ascoltandolo, magicamente i vostri pensieri si libereranno. Potete sentire la pioggia sul viso, pensare al suo lungo viaggio e alle molte trasformazioni, dal mare, all’aria, alla terra. Anche se vivete in città potete trovare un luogo – un parco, un campo da golf – da cui osservare le misteriose migrazioni degli uccelli e il cambio delle stagioni. Insieme al vostro bambino potete riflettere sul mistero di un seme che cresce, si tratti anche di un solo seme piantato in un vaso di terra sul davanzale della finestra in cucina.
Esplorare la natura con vostro figlio significa principalmente diventare ricettivi verso ciò che vi circonda. Significa imparare di nuovo a usare gli occhi, le orecchie, le narici e i polpastrelli, riattivando i canali delle percezioni sensoriali ormai in disuso.
Per la gran parte di noi, la conoscenza del mondo deriva innanzitutto dalla vista; eppure ci guardiamo attorno con occhi così miopi da renderci parzialmente ciechi. Un modo per aprire gli occhi alla bellezza che di solito trascuriamo è domandarsi: “Che effetto mi farebbe se lo vedessi per la prima volta? E se sapessi che non potrei vederlo mai più?”.
Ricordo una notte d’estate in cui questo pensiero mi colse con forza. Era una notte chiara senza luna. Insieme a un’amica avevo raggiunto un promontorio piatto, una specie di isolotto circondato dalle acque della baia. Lì gli orizzonti sono linee remote, distanti, al confine con lo spazio. Ci sdraiammo a guardare il cielo e i milioni di stelle che risplendevano nell’oscurità. La notte era così tranquilla che riuscivamo a sentire la boa contro gli scogli distanti, oltre l’imboccatura della baia. Una o due volte giunse a noi la parola pronunciata da qualcuno sulla spiaggia lontana, trasportata attraverso l’aria limpida. Alcune luci brillavano nei cottage. All’infuori di quelle, non c’erano altri segni di vita umana: io e la mia compagna eravamo sole con le stelle. Mai mi sono sembrate più belle: il fiume nebuloso della Via Lattea che scorreva attraverso il cielo, la forma delle costellazioni che si stagliava luminosa e nitida, un pianeta fiammeggiante basso sull’orizzonte. Una volta, forse due, una meteora entrò bruciando nell’atmosfera della terra.
Mi venne di pensare che se una tale scena si fosse presentata solo una volta ogni secolo o per ciascuna generazione, il piccolo promontorio sarebbe stato gremito di visitatori. Invece la si può contemplare decine di notti ogni anno, e così le luci nei cottage rimangono accese e chi ci vive probabilmente nemmeno pensa alla bellezza sopra la sua testa. E poiché è uno spettacolo che può vedere tutte le sere, forse non lo vedrà mai. “

Rachel L. Carson,Brevi lezioni di meraviglia. Elogio della natura per genitori e figli, traduzione di Miriam Falconetti.

NOTA: La citazione è tratta da un articolo apparso per la prima volta nel 1956 sulla rivista “Woman’s Home Companion” con il titolo Help Your Child to Wonder e poi pubblicato in volume da Harper nel 1965 (col titolo The Sense of Wonder); è il racconto intimo delle escursioni fatte in compagnia di Roger, il piccolo nipote dell’autrice di tre anni, che in un’estate degli anni ‘50 le aveva fatto visita nella sua casa in riva all’oceano nel Maine.

“ «Ci si sveglia e ci si ritrova in mezzo alla perfidia e alla bassezza e all’ottusità e alla debolezza di carattere e si comincia a pensare e non si pensa se non in termini di perfidia, bassezza, ottusità, debolezza di carattere. Se non in termini di patologia di morte e di dilettantismo esistenziale. Si ascolta e si vede e si pensa e si dimentica quello che si ascolta, si vede e si pensa, e si invecchia, ognuno nella sua connaturata maniera, nella solitudine, nell’inettitudine, nell’insolenza.
Dire che la vita è un dialogo è una menzogna come dire che la vita è realtà. Anche se non è un prodotto della fantasia, in fondo non è altro che una disgrazia in quanto infamia, un periodo di orrore il quale, lungo o breve che sia, è fatto solo di fastidi e malinconia… solo cause ed effetti di morte moltiplicati per miliardi… Abbiamo a che fare in questo caso con un’enorme intolleranza della creazione che ci deprime e amareggia sempre più e alla fine ci uccide.
Crediamo di aver vissuto e in realtà siamo morti a poco a poco. Crediamo che tutto sia stato un insegnamento e invece non è stato che una scemenza. Noi osserviamo e riflettiamo e non possiamo non vedere come sfugga tutto quello che osserviamo e su cui riflettiamo, come ci sfugga il mondo che ci siamo proposti di dominare o per lo meno di trasformare, come ci sfuggano il passato e il futuro, come noi sfuggiamo a noi stessi e come con l’andar del tempo tutto ci diventa impossibile. Noi tutti passiamo l’esistenza in un’atmosfera di catastrofe. La nostra indole tende all’anarchia. Tutto in noi desta continuamente sospetto. Dove c’è l’imbecillità, dove non c’è, è tutto intollerabile. Il mondo, da qualsiasi parte lo guardiamo, in fin dei conti è fatto di cose intollerabili. Sempre più intollerabile è per noi il mondo. Se sopportiamo l’intollerabile è per l’attitudine di ciascuno di noi a tormentarsi e a soffrire per tutta la vita, sono un paio di elementi ironici dentro di noi, un idiotismo irrazionale, tutto il resto è calunnia». “

Thomas Bernhard,Ungenach. Una liquidazione, traduzione di Eugenio Bernardi, Adelphi (collana Piccola Biblioteca Adelphi n° 766), 2021¹; pp. 97-98.

[ Edizione originale: Ungenach. Erzählung, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main, 1968 ]

“ La pandemia del suprematismo bianco si sta diffondendo come una gramigna anche in Europa. Non dimentichiamoci che qui trova un terreno fertile sia per il nazismo, con l’eliminazione fisica di milioni di ebrei, rom, omosessuali sia per il fascismo, con il Manifesto della razza e le leggi razziali di Mussolini.
Oggi l’“estrema destra di Dio”, come la chiama il teologo spagnolo Juan Tamayo, si sta espandendo in Europa, dalla Spagna agli Urali.
In Spagna c’è un’incredibile armonia tra le organizzazioni cattoliche spagnole ultraconservatrici HartetOir,El Yunque,InfoCatólicae altre come il partito di estrema destra Voxche sta guadagnando sempre più consensi nonché rilevanza politica. Anche la leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni ha partecipato alla convention di Voxnel 2021. Voxvuole costruire veri e propri muri attorno a Ceuta e Melilla per bloccare i migranti. E anche in Portogallo l’estrema destra populista di Chegasta ottenendo sempre più consenso.
In Francia è il Rassemblement National, denominato fino al 2018 Front National, a essere la voce del­l’estrema destra. Fondato da Jean-Marie Le Pen, il Front National propone l’identità francese contro l’integrazione, nega l’Olocausto e mantiene legami con i gruppi neofascisti. Nelle ultime elezioni europee il Rassemblement National, guidato da Marine Le Pen, ha ottenuto cinque milioni di voti. Ma per le prossime elezioni (2022), in Francia si presenterà il nuovo fenomeno del­l’ultradestra Éric Zemmour, misogino, omofobo, islamofobo, razzista. Ritiene che il partito di Marine Le Pen non sia abbastanza duro e razzista. “L’ossessione di Zemmour è l’islam.” La sua teoria è quella della sostituzione “perché,” egli afferma, “è in corso una colonizzazione da parte degli stranieri”. Il 30 novembre 2021 si è candidato ufficialmente alle elezioni presidenziali francesi, e il 5 dicembre ha fondato, a sostegno della sua candidatura, il partito politico Reconquête(Riconquista), un chiaro riferimento storico alla Reconquista spagnola contro la dominazione musulmana. Ha l’appoggio di banchieri, milionari reazionari, del sistema mediatico di Bolloré, nonché di una parte del mondo cattolico.
In Austria è stato Jörg Haider nel 1993 a lanciare con il suo partito FpÖ (Partito della libertà austriaca) la campagna “Prima l’Austria”, con cui intendeva introdurre leggi più severe contro l’immigrazione. Nelle elezioni del 1999 Haider ottenne un risultato storico portando il suo partito a diventare il secondo partito del Paese, ma poi ha perso consensi per lo scandalo che ha coinvolto il leader dell’FpÖ, Heinz C. Strache. I vari governi che si sono poi succeduti in Austria hanno preservato politiche a forti spinte populiste, identitarie e antimigranti.
Nella vicina Germania sta guadagnando sempre più terreno il partito razzista Alternativa per la Germania(AfD), che ha ottenuto buoni risultati in Germania Orientale, in Sassonia, e ora sta conquistando consensi anche in Baviera. Infatti nella ricchissima e cattolica Baviera, che non riesce a trovare forza lavoro per circa trentamila posti, c’è un crescente rifiuto dei migranti siriani fatti entrare dalla Merkel. La classe media ha paura di perdere il suo benessere e vuole preservarlo costruendo muri. Sarebbero più di dodicimila gli appartenenti ai gruppi neonazisti in Germania. E un rapporto riservato del­l’Europol afferma che questi gruppi mostrano crescente interesse alle armi. “

Alex Zanotelli,Lettera alla tribù bianca, Feltrinelli (collana Serie Bianca); prima edizione marzo 2022. [Libro elettronico]

“ Si restava cristiani perché conveniva, ma invero, quanto al miracolo, alla resurrezione… stendiamo un velo pudico su queste ingenuità.
Nondimeno bisognava pure far finta di crederci, perché uno dei tanti vantaggi del cristianesimo era quello di sviluppare lo spirito di obbedienza tra i poveri ed i subordinati: «che il povero si glorifichi della sua umiliazione, (che comodità per chi lo sfrutta!), sottomettetevi». È Dio che lo dice, la religione è un pilastro dell'ordine sociale. Inutile insistere su questi temi oggi ben noti. È proprio vero che la borghesia ha fatto della religione quello che Marx le imputò di averne fatto. L’analisi è inconfutabile, l’alienazione spirituale si unisce necessariamente a quella economica. Il cristianesimo era uno strumento di governo ulteriore, ma era necessario renderlo utilizzabile ed adatto a un tale servizio. Credere in Dio è bene per i poveri, i negri e i fanciulli. «Dio è il punto d’appoggio su cui applicare la mia leva per farli muovere».
Ma tutto questo presuppone appunto che Dio non esista. Se esiste, non posso strumentalizzarlo. Per rendere socialmente utile la religione, cosa che la borghesia ha fatto in modo magistrale, occorre che l’ente cui questa religione si indirizza sia qualcosa di inerte, senza nessun genere di autonomia. Sono io che creo Dio perché Dio trovi posto nella mia scacchiera: assai utile l’Alfiere, ma è la mia mano che lo sposta. E, di conseguenza, la religione diventa puro formalismo: liturgia, teologia, morale, vita, tutto deve essere reso formale, diventare cerimonia, astrazione, contabilità, calcolo.
L’ateismo radicale del borghese non è il rozzo machiavellismo a cui l’hanno ridotto i nostri spregiudicati moderni. Esso è legato alla sua potenza demiurgica: impossibile rimodellare il mondo senza essere del tutto affrancati dal peso di Dio. E questo borghese lo è. Sa di essere il solo capace di tale nuova creazione, e non chiede aiuto. Strano destino del borghese, questo, di servire da modello per chi più lo detesta. Quando Nietzsche, spregiatore instancabile del borghese, preannunzia l’avvento di un al di là dell'uomo sotto l’aspetto del superuomo, di chi fa il ritratto, se non di quello che è già stato il borghese? Colui che non cessava di combattere gli aveva inoculato il virus di una certa visione del mondo culminante nell'esaltazione oltre ogni limite dell'uomo senza vincoli: e tale era nella sua segreta duplicazione perfettamente mascherata, perfettamente ingannevole, il suo nemico portato al parossismo; e solo perché il borghese aveva ibernato, cristallizzato Dio, Nietzsche poteva, dopo di lui, proclamarne la morte. “

Jacques Ellul,Metamorfosi del Borghese, traduzione a cura di Eugenio Ripepe, casa editrice Giuffrè (collana Valori politici n° 13), 1972.

[Edizione originale: Métamorphose du bourgeois, Paris, Calmann-Lévy, 1967]

Vittorio Sgarbi

“ Vittorio Sgarbi nasce nel 1952 a Ferrara. Si capisce subito che non è un bambino come gli altri. Appena venuto al mondo è già così antipatico che l'ostetrico, per farlo respirare, anziché dargli il solito schiaffetto, decide di dargli un pugno. Sgarbi all'inizio incassa, ma poi la sera va al Maurizio Costanzo Show, manda a cagare il medico, querela la levatrice, si scopa tre signore del pubblico e torna a Ferrara in tempo per la poppata di mezzanotte.
A sei anni Vittorio ha i primi guai con la giustizia. Iscritto dalla madre Caterina all'Istituto dei Canonici Mattei di Ferrara, Sgarbi durante uno scambio di figurine dei calciatori coi compagni, per avere Skoglunt, Stacchini e Dell'Omodarme, che gli consentivano di finire la raccolta, offre in cambio un Correggio, un Pisanello e un Vivarini della pinacoteca paterna. Succede il finimondo: il padre lo va a prendere a scuola e davanti a tutti i compagni e al Direttore gli dà un ceffone. Allora, come in una pagina di De Amicis, il piccolo Vittorio, con gli occhi gonfi di lacrime, si inginocchia, abbraccia le gambe del padre e gli morde le palle. «Lasciami, birba!», implorava dolorante il genitore. «Inculati, stronzo», rispose Vittorio tra il deliquio delle compagne di scuola. Allora il Direttore guardò fisso Sgarbi in mezzo al silenzio della classe e gli disse con un accento da far tremare: «Sgarbi, tu uccidi tuo padre!» Tutti si voltarono a guardare Sgarbi. E l'infame sorrise.
Uscito dal liceo, Vittorio comincia ad appassionarsi alla storia dell'arte. Fruga cantine, magazzini, sacrestie. Rimuove quintali di polvere e ragnatele, poi finalmente mette a segno il colpo che gli cambia la vita. In un antico palazzo veneziano con l'intuito di uno Schliemann scopre, quasi completamente corrosa dall'umidità e dalla muffa, una vecchia contessa. La restaura, si fa fotografare al suo fianco e lei in cambio lo introduce nei salotti della mondanità veneta. Da quel giorno in poi il suo successo con le donne è strepitoso. Sarà quella faccia da vir melanconicus, saranno quelle gambucce di tenero sedano, saranno quelle manine eburnee e irrequiete sta di fatto che Sgarbi è come Shelley, come D'Annunzio, come Majakovskij, ha cioè il fascino del contenuto che fa trascurare quello della confezione.
In una recente indagine della Makno alla domanda: Andreste a letto con Vittorio Sgarbi?, 50 donne su 100 hanno risposto «sì», mentre le altre 50 hanno risposto: «un'altra volta?» Naturalmente è proprio grazie a questo genere di riscontri che Sgarbi ha sviluppato un narcisismo spropositato: ormai non solo si crede più intelligente di Maurizio Costanzo ma addirittura più attraente. “

Gino & Michele,Saigon era Disneyland (in confronto), Milano, Baldini & Castoldi, 1991¹; pp. 75-76.

“ Perché ce l’ho tanto con Putin? Perché il tempo passa. Quest’estate saranno sei anni che la seconda guerra cecena è iniziata affinché Putin potesse diventare presidente. E non se ne vede la fine. All’epoca i bimbi shahid [martiri dell’Islam] non erano ancora nati, ma dal 1999 a oggi tutte le stragi di bambini – tra le bombe e le pulizie etniche – sono rimaste impunite: i carnefici non sono mai finiti sul banco degli imputati. Putin non l’ha mai preteso, sebbene abbia fama di «amico di tutti i bimbi». In Cecenia i militari continuano a comportarsi com’è stato loro permesso da che la guerra è iniziata: pensano di essere in un poligono di tiro senza nessuno intorno, bambini compresi.
Questa strage di innocenti non ha scosso il Paese. Nessuna televisione ha mostrato le immagini dei cinque piccoli ceceni uccisi. Il ministro della Difesa non si è dimesso seduta stante (perché è un amico di Putin e perché è uno dei papabili alle presidenziali del 2008). Non ha lasciato il suo posto nemmeno il comandante dell’Aeronautica militare. È rimasto tutto com’era. Il comandante in capo non ha indirizzato una sola parola di conforto o di condoglianze a quel padre rimasto solo. Il mondo continua a ribollire attorno a noi. In Iraq sono stati ammazzati degli ostaggi. Popoli e nazioni hanno chiesto a chi li governa e alle organizzazioni internazionali di ritirare le truppe per salvare la vita di quanti stanno facendo il loro dovere. Da noi niente. La morte di quei bambini assurti a martiri non solo non ci ha spinti a chiedere di ritirare le truppe, ma nemmeno a iniziare un dibattito su quanto sta accadendo in Cecenia con l’intento di aprire una strada al dialogo, alla pacificazione, alla smilitarizzazione e a tutto ciò che consegue alla fine di un conflitto.
Perché ce l’ho tanto con Putin? Per tutto questo. Per una faciloneria che è peggio del ladrocinio. Per il cinismo. Per il razzismo. Per una guerra che non ha fine. Per le bugie. Per i gas nel teatro Dubrovka. Per i cadaveri dei morti innocenti che costellano il suo primo mandato. Cadaveri che potevano non esserci. Io la penso così. Altri avranno punti di vista differenti. Nonostante la strage, la gente continua a sperare che il mandato presidenziale si prolunghi fino a dieci anni. Di solito è il Cremlino, nella persona di Vladislav Surkov, a creare l’ennesimo movimento giovanile pro-Putin. Surkov, vicecapo dell’ufficio del presidente, non è solo un gran tessitore di alleanze, ma anche il miglior PR del Paese – dove «pubbliche relazioni» diventa sinonimo di menzogna, inganno e parole invece che fatti. I movimenti politici nati da un decreto del Cremlino sono in gran voga a casa nostra, affinché l’Occidente non sospetti che il nostro sia un sistema monopartitico, autoritario e non-pluralistico. E così spuntano gruppi che prendono nomi del tipo Marciamo insieme,Cantiamo insieme,Per la stabilità e altre varianti della Gioventù comunista di un tempo. Il tratto distintivo di questi movimenti parapolitici pro-Putin è che il ministero della Giustizia – solitamente incline a creare difficoltà a chi tenta qualche passo in politica – li registra in quattro e quattr’otto, senza lungaggini burocratiche. E come primo atto pubblico il neonato movimento annuncia che si adopererà a favore dell’estensione del mandato per l’amato presidente. “

Anna Politkovskaja,La Russia di Putin, traduzione di Claudia Zonghetti, Adelphi (collana Gli Adelphi, n°639), 2022⁴; pp. 353-354.

[1ª Edizione originale: Putin’s Russia, The Harvill Press, London (UK), 2004]

“ In quei giorni, il dottore vide Pamfíl Palých con la famiglia. Sua moglie e i bambini avevano trascorso tutta l’estate fuggendo sulle strade polverose, sotto il cielo aperto. Erano terrorizzati dagli orrori vissuti e ne aspettavano altri. La moglie e i tre figli, un maschietto e due bambine, avevano i capelli bianchi, color lino, bruciati dal sole, e bianchi severi sopraccigli sui visi abbronzati e riarsi dal vento. I bambini erano ancora troppo piccoli per recare altri segni di quanto avevano sofferto, ma dal volto della madre, traumi psichici e pericoli avevano cancellato ogni traccia di vitalità, lasciando solo l’arida regolarità dei lineamenti, le labbra strette e sottili, come un filo, la tesa immobilità della sofferenza pronta solo a difendersi.
Pamfíl li amava immensamente, specie i bambini, e con una punta dell’ascia ben affilata intagliava per loro giocattoli di legno, leprotti, orsacchiotti e galletti, con una maestria che stupiva il dottore.
Quando erano arrivati, Pamfíl era diventato allegro, si era ripreso e aveva cominciato a rimettersi. Ma presto si seppe che, a causa della nociva influenza che le famiglie esercitavano sul morale degli uomini, i partigiani sarebbero stati divisi dai loro cari, il campo liberato da quell’inutile peso e il convoglio delle donne avrebbe dovuto accamparsi, sotto una sufficiente scorta armata, a una certa distanza, per passarvi l’inverno. Erano certamente più le voci che correvano in proposito che non le disposizioni concrete. Il dottore non credeva che la misura potesse essere attuata. Ma Pamfíl si incupì e le allucinazioni ricominciarono. “

Borís Pasternàk,Il dottor Živago, Einaudi (collana Nuovi Universali; traduzione di Pietro Zveteremich, riveduta da Mario Socrate e Maria Olsoufieva; prefazione di Eugenio Montale), 1964; pp. 416-417.

[Prima edizione mondiale: Giangiacomo Feltrinelli Editore, collana «I Narratori», 15 novembre 1957]

“ Influente nell'aristocrazia, erede della dinastia intellettuale che faceva capo alla scuola del Museo, Ipazia era soprattutto maestra del «modo di vita ellenico» (hellenikè diagogè), sostanzialmente politico, cui l'aristocrazia pagana s'ispirava: lo conferma Suida, ancora qui da identificarsi in Esichio, secondo cui era «fluente e dialettica (dialektikè) nel parlare, accorta e politica (politikè) nell'agire, così che tutta la città davvero la venerava e le rendeva omaggio». «Dalla cultura ellenica (paidèia) le derivava», come ci informa Socrate Scolastico, «un autocontrollo e una franchezza nel parlare (parrhesìa)» per cui «si rivolgeva faccia a faccia ai potenti e non aveva paura di apparire alle riunioni degli uomini: per la sua straordinaria saggezza, tutti costoro le erano deferenti e la guardavano, se mai, con timore reverenziale».
Ipazia era la portavoce dell'aristocrazia cittadina presso i rappresentanti del governo centrale romano e in particolare presso Oreste d'Egitto. «I capi politici venuti ad amministrare la città», riferisce Suida, «si recavano per primi ad ascoltarla, come seguitava ad avvenire anche in Atene. Poiché, se anche il paganesimo vi era finito, comunque il nome della filosofia pareva ancora grande e degno di venerazione a quanti avevano le più importanti cariche cittadine». La filosofa influenzava direttamente e fortemente la politica interna della sua città: «Tu hai sempre avuto potere. Possa tu averlo a lungo, e possa tu di questo potere fare buon uso», si legge in una lettera di raccomandazione che le indirizzò l'allievo Sinesio.
Ma proprio da questo potere locale e clientelare prende le mosse la trasformazione delle classi dirigenti, avviata nelle sedi provinciali dal legittimarsi politico della Chiesa. La polistardoantica e bizantina vedrà d'ora in poi il vescovo, non più il filosofo, farsi consigliere e «garante civico» del rappresentante statale. «Il vescovo cristiano doveva avere il monopolio della parrhesìa!», ha scritto Peter Brown, proponendo, appunto sul caso di Ipazia, un sillogismo storico fin troppo immediato: se nella fase di trapasso dal paganesimo al cristianesimo il ruolo del filosofo e del vescovo vengono a sovrapporsi, che cosa fa il vescovo, se non eliminare il filosofo? «Phthonospersonificato si levò in armi contro di lei», denuncia Socrate. La gelosa malevolenza, lo phthonosdei cristiani per i pagani secondo tutte le fonti, e secondo un luogo comune della letteratura antica, è causa della fine violenta non solo di Ipazia ma insieme dell'antico modo di vita della polis, cui Suida accenna nel suo sfumato riferimento ad Atene. “

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Brano tratto da Ipazia, l’intellettuale, saggio di Silvia Ronchey raccolto in:

AA. VV.,Roma al femminile, a cura di Augusto Fraschetti, Laterza (collana Storia e Società), 1994¹; pp. 215-16.

“ Nell’angoscia dell’inserimento sociale il giovane nasconde un conflitto col modello patriarcale. Questo conflitto si rivela nelle istanze anarchiche in cui viene espresso un no globale, senza alternative: la virilità rifiuta di essere paternalistica, ricattatoria. Ma senza la presenza del suo alleato storico, la donna, l’esperienza anarchica del giovane è velleitaria, ed egli cede al richiamo della lotta organizzata di massa. La ideologia marxista-leninista gli offre la possibilità di rendere costruttiva la sua ribellione affiancandosi alla lotta del proletariato a cui è delegata anche la sua liberazione. Ma così facendo il giovane viene risucchiato in una dialettica prevista dalla cultura patriarcale, che è la cultura della presa del potere; mentre crede di aver individuato col proletariato il nemico comune nel capitalismo, abbandona il terreno suo proprio della lotta al sistema patriarcale. Egli pone tutta la sua fiducia nel proletariato come portatore della istanza rivoluzionaria: vuole svegliarlo se gli sembra intorpidito dai successi dei sindacati e dal tatticismo dei partiti, ma non ha dubbi che quella è la nuova figura storica. Facendo la lotta per un altro il giovane ancora una volta subordina se stesso che è esattamente quanto si è sempre voluto da lui. La donna, la cui esperienza femminista ha due secoli di vantaggio su quella del giovane, e che all’interno della rivoluzione francese prima, di quella russa poi ha cercato di unire la sua problematica a quella dell’uomo sul piano politico, ottenendo solo il ruolo di aggregato, afferma che il proletariato è rivoluzionario nei confronti del capitalismo, ma riformista nei confronti del sistema patriarcale.
Secondo una notazione di Gramsci, «i giovani della classe dirigente (nel senso più largo) si ribellano e passano alla classe progressiva che è diventata storicamente capace di prendere il potere: ma in questo caso si tratta di giovani che dalla direzione degli anziani di una classe passano alla direzione degli anziani di un’altra classe; in ogni caso rimane la subordinazione reale dei giovani agli anziani come generazione» (citazione tratta da A. Gramsci, Gli intellettuali e l’organizzazione della cultura). “

Carla Lonzi,Sputiamo su Hegel.

[ 1ª edizione: casa editrice “Rivolta Femminile”, 1970 ]

“ [U]na mattina di gennaio, sono andato a casa di Francesco Cossiga, insieme ad altri. Stavamo scrivendo un film per la tv su Aldo Moro. Ci ha accolti la figlia, gentile e distante. Ci ha accompagnati nel salone, dove c'erano foto incorniciate, appese al muro o sparse sui tavolini: ritraevano Cossiga insieme alle più grandi personalità della storia recente. Dopo un po’ lui è arrivato, camminando con passetti piccoli, trascinando scarpe morbide da casa: indossava una tuta adidas mal combinata con dei pantaloni di tuta champion. Si è seduto e ha subito detto: voi lo sapete che - e ci ha raccontato un pettegolezzo su Moro che non riporterò perché riguardava la vita privata e non pubblica. Dirò soltanto che è stato molto sorprendente e soprattutto spiacevole perché ci ha chiesto se lo avremmo messo nel film. Poi ha cominciato a raccontare facendo duemila digressioni, con brillantezza e ironia (e anche autoironia). Un narratore vero, che si sentiva già dentro la Storia, molto colto sulla politica e molto propenso a parlar male degli altri; ma allo stesso tempo una persona intelligente che dava giudizi acuti. Ha parlato a lungo del suo rapporto con Moro, e di quei 55 giorni del 1978. Ricordava tutto, muoveva la Storia un po’ come gli risultava favorevole, tendeva sia a sdrammatizzare alcune coincidenze tragiche, sia a rendere più ambigui certi passaggi: Moro non si fidava di Andreotti, da molto tempo non aveva più buoni rapporti con Zaccagnini, nei suoi progetti ero io il suo successore.
Ha anche detto che i brigatisti hanno ucciso Moro perché ormai le forze dell'ordine li avevano braccati. Ha parlato del dolore di quella prima lettera, ma cercando di passare ad altro al più presto, e quindi denunciando quel dolore come profondo. E soprattutto ha detto senza esitazioni una frase che serviva a minimizzare la volontà di non liberare Moro, ma non la minimizzava: certo, io e Andreotti ci siamo detti che se Moro fosse uscito vivo da lì, per noi sarebbe stata la fine. Ha detto questa frase come se riportasse una riflessione tra due persone che poi sapevano di dover agire in altro modo, come se fosse una chiacchierata trascurabile. Solo che non ha avuto l'effetto in sordina che desiderava, perché quella frase pronunciata con serenità ci ha fatto rabbrividire. Ho sentito con nettezza che avremmo voluto guardarci, ma nessuno di noi lo ha fatto, e abbiamo finto che fosse una frase come un'altra. “

Francesco Piccolo,Il desiderio di essere come tutti, Einaudi (collana Super ET), 2017 [1ª ed.ne 2013]; pp. 218-219.

“ Ponendo l’interrogativo della durata possibile del regime è interessante tracciare alcuni paralleli storici. Alcune delle condizioni che hanno provocato la prima e la seconda rivoluzione russa esistono forse anche oggi: gruppi di caste inamovibili; sclerosi di un sistema statale entrato nettamente in conflitto con le esigenze dello sviluppo economico; burocratizzazione del sistema e, quindi, creazione di una classe privilegiata; contraddizioni nazionali in seno ad uno Stato plurinazionale e situazione privilegiata di alcune nazioni. Eppure, se il regime zarista si fosse protratto più a lungo, avrebbe forse resistito ad una pacifica modernizzazione, a patto che il gruppo dirigente non avesse valutato fantasticamente la situazione generale e le proprie forze e non avesse svolto all’esterno una politica espansionista che provocò un eccesso di tensione. In effetti, se il governo di Nicola II non avesse iniziato la guerra contro il Giappone, non avremmo avuto la rivoluzione del 1905-1907 e, se non fosse stata dichiarata la guerra alla Germania, la rivoluzione del 1917 non sarebbe scoppiata*.
Perché qualsiasi indebolimento interno va sempre di pari passo con eccessive ambizioni di politica estera? Non so rispondere. Forse si cerca nelle crisi esterne uno sfogo delle contraddizioni interne. Forse, al contrario, la facilità con la quale viene soffocata qualsiasi opposizione interna crea l’illusione di una potenza illimitata. Forse l’esigenza di avere un nemico al di fuori, nutrita dagli obbiettivi di politica interna, crea una tale inerzia, che è impossibile fermarsi, tanto più che tutti i regimi totalitari si logorano fino all’estinzione senza accorgersene. Perché Nicola I ebbe bisogno della guerra di Crimea che mandò in rovina il regime da lui costituito? Perché Nicola II ebbe bisogno della guerra contro il Giappone e contro la Germania? Il regime di oggi compendia in sé in modo curioso aspetti dei regni di Nicola I e di Nicola II ed in politica interna, direi anche di quello di Alessandro III. Ma è ancora meglio paragonarlo al regime bonapartista di Napoleone III. Se questo paragone è valido, il Medio Oriente sarà il suo Messico, la Cecoslovacchia i suoi Stati Pontifìci e la Cina il suo Impero Germanico. “

*Rigorosamente parlando, non è lui che ha cominciato queste due guerre, ma ha fatto di tutto perché scoppiassero.

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Andrej Amalrik,Sopravviverà l'Unione Sovietica fino al 1984?, introduzione di Carlo Bo, traduzione dal russo di Caterina Darin, Coines edizioni spa, Roma, 1970¹; pp. 57-59.

[1ª Edizione originale: Просуществует ли Советский Союз до 1984 года?, Alexander Herzen Foundation, Amsterdam, 1970]

“ [M]entre attaccavamo i cavalli per tornare a casa, mio padre vide un vecchio negro che se ne veniva via a piedi dal combattimento, strascinando le ciabatte in mezzo alla polvere, e lo guardò bene e poi gli disse, ehi, zio, ma tu non sei il Ned di Martin?, e quello si tolse il cappello e disse, sissignore, sono proprio io, e mio padre gli disse, sei stato a vedere il combattimento, eh?, e quello disse, sissignore, e mio padre disse, ma ai vostri tempi c’era di meglio, eh?, e quello sorrise, con una bocca sdentata, e disse, sì, signore, noialtri eravamo meglio, ma cosa farci?, il mondo va sempre peggiorando, e mio padre disse, parole sante, Ned, e arrivederci, e mentre tornavamo a casa mio padre mi disse che quello era stato uno dei più forti lottatori dei vecchi tempi, e aveva fatto guadagnare al suo padrone dei bei dollari, e anche lui se n’era messi da parte un bel po’ con le scommesse, proprio così, che per un negro si poteva dire che stava bene, con quel che aveva guadagnato; già, già, disse mio padre, e io vedevo benissimo che s’era perso nei ricordi, era uno dei più forti, e che stallone, anche!, sogghignò; e io ne approfittai che non c’era lì mia madre, perché lei non gli avrebbe mai lasciato fare quei discorsi, e gli dissi, come sarebbe a dire, eh, papà?, e lui mi guardò e tacque, e poi disse, oh, be’, tanto non c’è niente che tu non possa sapere, e mi raccontò che era grazie a Ned che il vecchio Ebenezer Byrd aveva impregnato per la prima volta quella negra che s’era comprato per far razza; appena gli era entrata in casa, era andato da Sam Martin, perché quello lì era un suo negro, e per questo lo chiamavano il Ned di Martin, ed era il più forte lottatore della contea, e lui convinse Sam Martin a darglielo in affitto per un mese, e ogni notte lo chiudeva con la negra, e con tutto che il Ned di Martin era sposato e al principio aveva detto al suo padrone che lui non ne voleva sapere, be’, di lì a nove mesi quella negra mise al mondo due gemelli, e il vecchio Ebenezer e sua moglie, raccontava mio padre, erano fuori di sé dalla gioia, e si facevano in quattro per dare alla negra tutto quello che voleva, purché avesse abbastanza latte e i bambini crescessero sani; e uno poi crepò quasi subito, ma l’altro visse, e da lì cominciò la loro fortuna. “

Alessandro Barbero,Alabama, Sellerio (Collana La memoria n° 1195), Palermo, 2021¹; pp. 228-30.

L’IMPERIALISMO È GUERRA

“ L'attuale crisi economica che coinvolge il sistema imperialistico nel suo complesso è crisi di sovrapproduzione assoluta di capitale rispetto all'intera area capitalistica occidentale. Il mezzo con cui l'imperialismo ha sempre storicamente risolto le sue periodiche crisi di sovrapproduzione è stata la guerra. Infatti la guerra permette innanzi tutto alle potenze imperialiste vincitrici di allargare la loro base produttiva a scapito di quelle sconfitte, ma soprattutto guerra significa distruzione di capitali, merci, e forza lavoro, quindi possibilità di ripresa del ciclo economico per un periodo di tempo abbastanza lungo.
All'imperialismo in questa fase si ripropone quindi il dramma ricorrente della produzione capitalistica: ampliare la sua area per poter ampliare la sua base produttiva.
Infatti rimanere ancora “ristretto” nell'area occidentale, significa per l'imperialismo accumulare contraddizioni sempre più laceranti: la concentrazione dei capitali cresce in modo accelerato, il saggio di profitto raggiunge valori bassissimi, la base produttiva diviene sempre più ristretta, la disoccupazione aumenta paurosamente. A brevi e apparenti momenti di ripresa seguono inevitabilmente fasi recessive sempre più gravi e si determina così di fatto un processo di crisi permanente (lo svolgersi della crisi in questi ultimi anni lo dimostra ampiamente).
Si pone perciò all'imperialismo la necessità sempre più impellente di allargare la sua area. Ma questo allargamento può avvenire solo a spese del Social-Imperialismo (URSS e paesi del Patto di Varsavia) e conduce quindi inevitabilmente allo scontro diretto USA-URSS.
Gli scontri parziali per “interposte persone” a cui stiamo assistendo in Medio Oriente, Africa non sono che i primi passi di questo processo.
È questa quindi la prospettiva storica che il capitale monopolistico multinazionale pone in questa fase a se stesso e al movimento rivoluzionario. All'interno di questa prospettiva storica la posizione del proletariato non può che oggettivamente porsi come urto frontale e decisivo con il dominio imperialista e la sua diretta tattica non può che essere fissata da questa stessa prospettiva storica: o guerra di classe nella metropoli imperialista o terza guerra imperialista mondiale.
Le varie potenze imperialiste infatti non possono farsi guerra se non hanno il proprio retroterra “pacificato e solidale” per poter così sostenere la durezza dello scontro. Si potrebbero fare molti esempi di guerre interimperialistiche che si sono concluse appena si è presentato anche solo il pericolo della rivoluzione comunista e i diversi imperialismi, che prima si mostravano acerrimi nemici, si sono uniti contro il proletariato insorto in armi. Ne bastino due: la Comune di Parigi e la Rivoluzione d'Ottobre. “

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Brano tratto dalla Risoluzione della direzione strategica delle Brigate Rosse, testo diramato nel febbraio 1978 e raccolto in:

Moro: una tragedia italiana - le lettere, i documenti, le polemiche, a cura di Giorgio Bocca, Milano, Bompiani (collana Tascabili / Saggi - Storia contemporanea, n°116), maggio 1978¹; p. 51.

“ — Occorre un vero nazionalismo russo — disse Rebrov. — Qualsiasi. Anche il più fascista. Altrimenti la Russia non si solleverà. Altrimenti il popolo russo sarà per sempre l'arena e il materiale per furfanti d'ogni tipo.
E di nuovo cominciammo un'assurda discussione sul nazionalismo, sull'internazionalismo, sull'antisemitismo, sul sionismo.
— In tutte le nostre conversazioni di questo genere — disse poi Rebrov, — c'è qualcosa di ipocrita, di vergognoso e vile. Eppure un popolo che desidera acquistare un ruolo autonomo attivo nella storia, non può fare a meno del nazionalismo. In tutte le nostre repubbliche prospera il nazionalismo. E noi riconosciamo la sua legittimità. Ma per il popolo più infelice e oppresso di questo paese, per il popolo russo, non ammettiamo nemmeno che si possa pensare al nazionalismo. Questo, cari signori, non è altro che tradimento del proprio popolo!
— Io sono pronto ad accettare un nazionalismo russo — disse Senzanome — ma soltanto con un programma puramente sociale. In caso contrario il nazionalismo russo degenera sempre in un'unica formula idiota: la colpa è tutta dei giudei.
— Ma lei cosa intende per programma sociale? — chiesi io.
— La cultura occidentale e il modo occidentale di vita — disse Senzanome.
— Un errore madornale — disse Rebrov. — Il popolo russo non è un popolo di modello occidentale. È semplicemente russo, e basta. È un modello a sé come ogni altro grande popolo.
Ci separammo senza aver trovato un posto adatto dove mangiare qualcosa e senza essere arrivati ad un accordo sul tema del nazionalismo russo. Per quel che mi riguarda, non mi sono mai sentito un rappresentante della nazione russa. Mi sono sempre sentito moscovita, rappresentante di un particolare insieme cosmopolita di uomini delle più diverse nazionalità, e di quella parte di questo insieme, tra l'altro, i cui rappresentanti sono sospettati di essere ebrei mascherati o semiebrei. Mosca, personificando tutto il nostro enorme paese in tutta la sua varietà, nello stesso tempo si contrappone a esso come una formazione completamente nuova universale e si contrappone alle remote provincie semiasiatiche. Anch'io a volte nel grigiore e nella tristezza moscovita noto qualcosa di più espressivo del brio e della vivacità delle città dell'Europa occidentale. Vi intravvedo qualcosa di affine ad un bazar orientale. Mosca ha il futuro. L'Occidente il passato. E se dobbiamo parlare del ruolo del popolo russo, per me esiste soltanto questo problema reale: cosa apporterà il popolo russo a questa nuova comunanza, quando sarà sparito dalla faccia della terra come popolo russo. Ed esso praticamente sta scomparendo come nazione. La rivoluzione, la guerra civile, la collettivizzazione, le infinite repressioni, la seconda guerra mondiale, tutto questo distrusse la Russia come formazione nazionale. La Russia da tempo non c'è più. E non ci sarà mai più. È rimasta la popolazione russa, materiale per qualcosa d'altro, ma non per una nazione. Io sono convinto del fatto che per la popolazione russa il nazionalismo sarebbe un fatto estremamente reazionario. Sarebbe un tornare indietro, non un progresso. “

Aleksandr Zinov'ev, Il radioso avvenire, (traduzione di Isabella Leone), Spirali Edizioni, 1985¹; pp. 383-385.

[ 1ª pubblicazione: Светлое будущее, Éditions L'Âge d'Homme, Lausanne (Svizzera), 1978 ]

“ Come potremmo mai non condividere le sofferenze mortali subite dall'Ucraina in epoca sovietica? Ma da dove scaturisce l'intento di asportare l'Ucraina da un corpo vivo (ed anche quella che da tempi remoti, nel corso dei secoli, non è stata mai Ucraina, come il Dikoe Pole —«Terra selvaggia» — dei nomadi, o la Crimea, il Donbass, fin quasi ad arrivare al Mar Caspio)? E se «autodeterminazione delle nazioni» ha da essere, allora che davvero ogni nazione decida le proprie sorti. E questo non si risolve prescindendo da una votazione popolare.
Staccare oggi l'Ucraina significa passare attraverso milioni di famiglie e di persone: quanta commistione di popolazioni; intere regioni e città a predominanza russa: quante persone imbarazzate a scegliere tra le due nazionalità; quanti di sangue misto; quanti matrimoni misti, che peraltro fino ad oggi nessuno considerava «misti». Nel fulcro della popolazione radicata non c'è ombra di intolleranza tra ucraini e russi.
Fratelli! Non ci serve questa crudele separazione! Sarebbe il frutto dell'ottundimento degli anni comunisti. Insieme abbiamo sofferto l'epoca sovietica, insieme siamo precipitati in questo baratro, e insieme ne usciremo.
E in due secoli: quale folla di nomi illustri all'incrocio delle nostre due culture. Nella formula di M.P. Dragomanov: «Indivisibili, ma neppure confondibili». Occorre aprire in spirito di amicizia e disponibilità la strada alla cultura ucraina e bielorussa non solo sui territori dell'Ucraina e Bielorussia, ma anche della Grande Russia. Nessuna russificazione forzosa (e peraltro nessuna ucrainizzazione forzosa, quale si ebbe verso la fine degli anni Venti), ma libero sviluppo parallelo di ambedue le culture, e classi scolastiche con l'insegnamento nelle due lingue, a scelta dei genitori.
Certo, se il popolo ucraino desiderasse effettivamente separarsi, nessuno potrebbe impedirglielo con la forza.
Il nostro spazio è multiforme, e solo la popolazione localepuò decidere le sorti della propria località, della propria regione, mentre ogni nuova minoranza recentemente formatasi in questa località deve contare sulla medesima non coercizione. “

Aleksandr SolženicynCome ricostruire la nostra Russia? - Considerazioni possibili, traduzione di Dario Staffa, Rizzoli, ottobre 1990¹; pp. 21-23. (Corsivi dell’autore)

[ 1ª Edizione originale: Как нам обустро́ить Росси́ю? - посильные соображения, Volgogradskaya Pravda, 21 settembre 1990 ]

“ La filosofia cui si ispira la concezione della «casa comune europea» esclude ogni conflitto armato, la stessa possibilità dell'impiego della forza o della minaccia della forza, innanzi tutto militare. Al posto della dottrina della deterrenza, essa propone la dottrina della moderazione. E non si tratta di sfumature di concetti, ma di una logica dettata dalla stessa realtà dello sviluppo europeo.
I nostri obiettivi ai negoziati di Vienna sono noti. Noi riteniamo pienamente realizzabile — e anche il Presidente Usa è dello stesso avviso — l'abbassamento sostanziale, nell'arco di 2-3 anni, del tetto degli armamenti in Europa, naturalmente eliminando tutte le asimmetrie e gli squilibri. Sottolineo tuttele asimmetrie e gli squilibri. Non sono ammissibili due diversi metri di misura. Siamo convinti che sia tempo di avviare anche i negoziati sui mezzi nucleari tattici tra tutti i paesi interessati. L'obiettivo finale è la completa eliminazione di quest'arma. Essa minaccia gli europei, che non hanno alcuna intenzione di farsi la guerra l'uno contro l'altro. Allora a cosa e a chi serve?
Liquidare gli arsenali nucleari oppure conservarli a qualsiasi costo? La strategia della deterrenza nucleare rafforza o mina la stabilità? Su questi problemi le posizioni della Nato e del Trattato di Varsavia appaiono diametralmente opposte. Ma noi non drammatizziamo le divergenze. Noi cerchiamo soluzioni e invitiamo i nostri partner a fare altrettanto. Infatti consideriamo la liquidazione dell'arma nucleare come un processo graduale. E parte della distanza che ci separa dalla completa eliminazione dell'arma nucleare gli europei possono percorrerla insieme, senza rinunciare alle propri posizioni: l'Urss, restando fedele ai propri ideali non nucleari, l'Occidente alla concezione della «deterrenza minima».
Tuttavia occorre comprendere cosa s'intende per «minima», e dov'è il limite, varcato il quale il potenziale di ritorsione nucleare si trasforma in potenziale offensivo. Ci sono molti punti oscuri, e la reticenza è fonte di sfiducia.
Allora perché gli esperti di Urss, Usa, Gran Bretagna e Francia, nonché degli Stati nei cui territori è dislocata l'arma nucleare, non discutono approfonditamente questi problemi? Se essi arrivassero a una qualche valutazione comune, il problema si semplificherebbe anche a livello politico.
Se i paesi della Nato dimostreranno la propria disponibilità a negoziare con noi sugli armamenti nucleari tattici, potremo — consultandoci, naturalmente, con i nostri alleati — avviare senza indugi un'ulteriore riduzione unilaterale dei nostri missili nucleari tattici di stanza in Europa. “

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Brano tratto dal discorso dell’ultimo segretario del Pcus all’assemblea del Consiglio d’Europa riunita a Strasburgo il 6 luglio 1989; il testo (intitolato Appello all’Europa: dall’Atlantico agli Urali) è in:

Mikhail GorbaciovLa casa comune europea, A. Mondadori (collana Frecce; traduzione in italiano a cura dell’editore sovietico), 1989¹; pp. 216-217.

[Prima edizione: Агентство печати «Новости» (АПН), Mosca, 1989]

“ Il padrone ce l’ha il cane, continuano a ripetere certi contadini toscani, mezzadri per la precisione. Ma quello è un proverbio ottimista, errato, dove si confondono l’essere e il dover essere. In realtà il padrone l’abbiamo tutti, allo stesso modo in cui tutti abbiamo una mamma e, se va bene, tutti abbiamo una casa. La schiavitù è durata tanti secoli, e in certi Paesi dura ancora, per colpa non dei padroni, ma degli stessi schiavi, i quali godevano d’una posizione privilegiata e mal volentieri si rassegnarono a perderla: mantenuti per tutta la vita insieme alle mogli e ai figli, con la pensione assicurata. È vero, il padrone poteva anche ucciderli, allo stesso modo in cui io, volendo, posso bruciare la mia casa, che sarebbe una bella mattana. Un onere troppo gravoso, di cui i padroni si sono liberati, trasformando gli schiavi in servi della gleba, poi in mezzadri e finalmente in braccianti, salariati, stipendiati. Tutta gente che viene pagata a giornata (anzi a bella giornata, perché se piove non beccano una lira) e si può licenziare a piacimento. Mogli e figli a carico.
La tendenza naturale dell'uomo a trovarsi un padrone appare anche in certe locuzioni che si sentono in bocca a persone stimate, come per esempio «al servizio della patria», oppure del Paese, della fede, del pubblico, eccetera. Sulle maniere più opportune per riconoscere, accostare, utilizzare un padrone si sono scritti libri su libri. Il più celebre porta la firma di Niccolò Machiavelli, e chi vuole può consultarlo con poca spesa e molto profitto. “

Luciano Bianciardi,Non leggete i libri, fateveli raccontare. Sei lezioni per diventare un intellettuale dedicate in particolare ai giovani privi di talento, Edizioni Stampa Alternativa/Nuovi Equilibri (collana Eretica), 2008; pp. 38-40.

NOTA: Il libro raccoglie sei ironici articoli pubblicati nel 1967 su sei numeri consecutivi di “ABC”, settimanale culturale milanese anticonformista e anticlericale che aderì a numerose campagne civili, dall’aborto all’obiezione di coscienza, alla libertà sessuale, alla laicità dello stato. Significativa fu la sospensione delle pubblicazioni di questo periodico nel 1975 dovuta secondo Lidia Ravera al titolo di copertina «Polizia assassina».

“ Nel lontano 2006, quando da poco era tornata al governo la coalizione di centro-sinistra, Luciano Gallino scrisse sul quotidiano «la Repubblica», di fronte alla consueta recrudescenza di morti sul lavoro, che il solo provvedimento necessario era l’immissione massiccia di nuovi ispettori del lavoro. Il 29 dicembre 2007 moriva la settima vittima della ThyssenKrupp. Dopo quindici anni siamo ancora lì. Anzi la situazione è, se possibile, peggiorata. Le tecniche volte ad «eludere o violare» le norme (per dirla col presidente Mattarella) si sono moltiplicate: prima tra tutte la proliferazione di sub-appalti che rende arduo identificare chi sanzionare, ammesso che si voglia davvero – come si esprime «il dicastero» – prendere «misure sospensive e interdittive». Per chi non accetta il cosiddetto «green pass» c’è l’immediata sospensione dello stipendio, per le aziende omicide si studiano «misure sospensive e interdittive».
Il 5 agosto del 2021 il «Corriere della Sera» dedicò un’intera pagina (p. 23) al problema, in un intervento a cura di Riccardo Bruno. Titolo: Ogni giorno 3 morti sul lavoro.
Il rischio è che l’espressione «sinistra di governo» significhi ormai soltanto «che occupa dei posti nel governo». Spettacolo di mediocrità e impotenza. Congedandosi dai giornalisti in procinto di andare in vacanza, il 6 agosto, il presidente del Consiglio [Mario Draghi] ha pensato che un cenno alla morìa sul lavoro andasse fatto. Ha tentato di fare il nome di Luana D’Orazio ma, non essendo molto informato, ha soggiunto: «almeno credo che si chiamasse così». “

Luciano Canfora,La democrazia dei signori, Laterza, gennaio 2022 (Corsivi dell’autore).

[Libro elettronico]

“ Il capo reparto stava in fondo e si vedeva di rado. I pezzi arrivavano sui nastri trasportatori, contati e controllati; tanti pezzi all’ora. Dopo una settimana riuscivo a seguire il ritmo del lavoro e avevo tempo ogni tanto per alzare la testa. Alzare la testa come se potessi farlo contro i miei mali e le tristi congiure.
Fuori l’inverno correva e si arrampicava su quelle querce, sopra i capannoni. La sera lo vedevo sul lago bianco e stretto.
Fino a tutto gennaio neve non tanta ma sovente, ogni due o tre giorni, senza attaccare. La guardavo dalla fabbrica e capivo che era inutile e che non avrebbe resistito.
Intanto continuavo il mio lavoro in mezzo agli altri, in silenzio, senza amicizie. Pinna non lo vedevo quasi piú e Gualatrone lo incontravo qualche volta alla mensa; ma era molto impegnato per l’amore e il partito. L’assistente sociale, dopo il trasferimento e la punizione, non l’avevo piú vista. Non andavo piú al cinema tutte le sere, perché a ora tarda era troppo freddo, anche con il cappotto.
In quel reparto del montaggio tutto mi sembrava nuovo e io stesso non avevo piú i risentimenti di prima.
Soffrivo ma con piú calma. Tutto l’ambiente, piú largo e piú luminoso, sembrava un posto inesistente, che dovesse sparire presto. Eravamo una massa confusa, che non chiedeva nulla, nemmeno a ciascuno di noi.
Eravamo tutti distratti anche se i nostri pensieri si accanivano. A certe ore nel reparto suonava la musica. Io l’ascoltavo e mi faceva bene. Spesso però mi ricordava il sanatorio, dove i malati cominciano ad aprire la radio alla mattina presto. Quando suonava la musica, il capo si alzava e cominciava a camminare su e giú nel corridoio in mezzo ai tavoli. Non guardava e non diceva niente a nessuno. Si chiamava Salvatore e faceva collezione di francobolli. In tutto il tempo che stetti con lui mi parlò soltanto due o tre volte, quando doveva farmi qualche comunicazione dell’infermeria o dell’Ufficio Personale.
Accompagnava le parole con un biglietto. Ricordo che per firmare impuntava la penna un attimo prima della esse maiuscola. Il suo silenzio era come tutto quello del reparto e nei suoi occhi non si leggevano intenzioni.
Cosí rimasi a lungo in quel posto senza seccature e ormai non m’importava piú nulla della qualifica e del lavoro.
Montare i pezzi era noioso ma anche faticoso, di una fatica che mi prendeva e mi accompagnava per tutta la giornata come un cattivo umore. “

Paolo Volponi,Memoriale, Garzanti, 1976 [1ª edizione 1962]; pp. 195-196.

“ Guarda, L'eterosessuale che sì sposa è come uno che diventa prete: fa voto di castità, ma senza saperlo fino a tre, quattro, cinque anni dopo. Per l'eterosessuale virile la natura del matrimonio comunemente inteso non è meno soffocante - date le preferenze sessuali di un eterosessuale virile - di quanto lo sia per il gay o per la lesbica. Oggi, però, anche i gay si vogliono sposare. Un matrimonio in chiesa. Due, trecento testimoni. E aspetta che vedano dove va a finire il desiderio che li ha fatti diventare gay. Mi aspettavo di più da questa gente, invece salta fuori che anche in loro non c'è il minimo realismo. Anche se credo che molto dipenda dall'Aids. Il Declino e l'Ascesa del Preservativo: ecco la storia sessuale della seconda metà del ventesimo secolo. Il preservativo è tornato. E, col preservativo, il ritorno di tutto ciò che negli anni Sessanta era stato spazzato via. Quale uomo può dire di apprezzare il sesso col preservativo nello stesso modo in cui l'apprezza senza? Cosa ci trova, in realtà ? Ecco perché gli organi della digestione sono arrivati, nella nostra epoca, a competere per la supremazia come orifizio sessuale. Il bisogno urgente della mucosa. Per disfarsi del preservativo devono avere un partner fisso, e allora si sposano. I gay sono militanti: vogliono il matrimonio e vogliono arruolarsi apertamente nell'esercito ed essere accettati. Le due istituzioni che io detestavo. E per lo stesso motivo: l'irreggimentazione.
L'ultima persona che prese sul serio queste cose fu John Milton, trecentocinquant'anni fa. Mai letto i suoi scritti sul divorzio? Gli procurarono molti nemici, ai suoi tempi. Sono qui, sono tra i miei libri, con i margini fittamente annotati nei lontani anni Sessanta. «Forse che il nostro Salvatore ci aprì questa porta fortuita e accidentale del matrimonio solo per chiudercela in faccia come la serranda della morte… ?» No, gli uomini non sanno niente - o agiscono deliberatamente come se non sapessero - del lato duro, tragico, della situazione in cui si mettono. Nel migliore dei casi pensano stoicamente, Sì, capisco che in questo matrimonio prima o poi dovrò rinunciare al sesso, però lo faccio per avere altre cose più preziose. Ma capiscono a che cosa rinunciano? Essere casti, vivere senza sesso, be’, come digerirai le sconfitte, i compromessi, le frustrazioni ? Guadagnando di più, guadagnando tutti i soldi che puoi ? Facendo tutti i figli che puoi ? Questo aiuta, ma è niente rispetto all'altra cosa. Perché l'altra cosa si radica nel tuo essere fisico, nella carne che nasce e nella carne che muore. Perché solo quando scopi riesci a vendicarti, anche se solo per un momento, di tutto ciò che non ami nella vita e di tutte le cose che nella vita ti hanno sconfitto. Solo allora sei più nettamente vivo e più nettamente te stesso. La corruzione non è il sesso: è il resto. Il sesso non è semplice frizione e divertimento superficiale. Il sesso è anche la vendetta sulla morte. Non dimenticartela, la morte. Non dimenticarla mai. Sì, anche il sesso ha un potere limitato. So benissimo quanto è limitato. Ma dimmi, quale potere è più grande? “

Philip Roth,L'animale morente, traduzione di Vincenzo Mantovani, Einaudi (collana Super ET), 2021֠⁹; pp. 50-52.

[ Edizione originale: The Dying Animal, Houghton Mifflin Publishing, 2001 ]

“ Un giorno, il giovane re Artù fu catturato e imprigionato dal sovrano di un regno vicino.
Mosso a compassione dalla gioia di vivere del giovane, piuttosto che ucciderlo, gli offrì la libertà, a patto, però, che rispondesse a un quesito molto difficile: Cosa vogliono veramente le donne?
Artù, tornato al suo regno, iniziò a interrogare chiunque: la principessa, le prostitute, i sacerdoti, i saggi, le damigelle di corte e via dicendo, ma nessuno seppe dargli una risposta soddisfacente. Ciò che la maggior parte delle persone gli suggeriva era di consultare una vecchia strega. La vecchia strega accettò di rispondere alla domanda solo al patto di ottenere la mano di Gawain, il più nobile dei cavalieri della Tavola rotonda, nonché migliore amico di Artù!
Il giovane Artù provò orrore a quella prospettiva: la strega aveva una gobba a uncino, era orrenda, aveva un solo dente e puzzava di acqua di fogna, ma Gawain, venuto al corrente della proposta, disse ad Artù che nessun sacrificio era troppo grande per salvare la vita del suo re e la Tavola rotonda, e che quindi avrebbe accettato, di buon grado, di sposare la strega.
Il matrimonio fu pertanto celebrato, e la strega finalmente rispose alla domanda: “Ciò che una donna vuole veramente è: essere padrona della propria vita”.
Tutti concordarono sul fatto che dalla bocca della strega era uscita senz'altro una grande verità e che sicuramente la vita di Artù sarebbe stata risparmiata. Ma che matrimonio avrebbero avuto Gawain e la strega? Gawain si comportava come sempre, gentile e cortese. La strega al contrario esibì le sue peggiori maniere… mangiava con le mani e ruttava mettendo tutti a disagio.
La prima notte di nozze era vicina, e Gawain si preparava a trascorrere una nottata orribile, ma prese il coraggio a due mani, entrò nella camera da letto e… che razza di vista lo attendeva!
Dinnanzi a lui, discinta, sul talamo nuziale, giaceva semplicemente la più bella donna che avesse mai visto!
Gawain rimase allibito, e chiese alla strega cosa le fosse accaduto.
La strega rispose che era stato talmente galante con lei quando si trovava nella sua forma repellente, che aveva deciso di mostrarglisi nel suo altro aspetto, e che per la metà del tempo sarebbe rimasta così, mentre per l'altra metà, sarebbe tornata la vecchiaccia orribile di prima.
A questo punto la strega chiese a Gawain quale dei due aspetti avrebbe voluto che ella assumesse di giorno e… quale di notte.
Gawain iniziò a pensare all'alternativa che gli si prospettava: una donna meravigliosa al suo fianco durante il giorno, quando era con i suoi amici, e una stregaccia orripilante la notte? O forse la compagnia della stregaccia di giorno e una fanciulla incantevole di notte, con cui dividere i momenti di intimità.
Il nobile Gawain disse alla strega che avrebbe lasciato a lei la facoltà di decidere per se stessa.
Sentendo ciò, la strega gli sorrise, e gli annunciò che sarebbe rimasta bellissima per tutto il tempo, proprio perché Gawain l'aveva rispettata, e l'aveva lasciata essere padrona di se stessa! “

Valeria Parrella,Ciao maschio - con una conversazione con Lella Costa, Bompiani (collana AsSaggi di narrativa), 2009¹; pp. 75-78.

AI RAGAZZI DI BARBIANA ALL’ESTERO

[Ormai i ragazzi che d’estate andavano all’estero erano molti, e il Priore non poteva scrivere più tutti i giorni una lettera a ognuno. Allora cominciò a scrivere una lettera uguale per tutti. Il titolo, scherzoso, è di don Lorenzo.]

Lettera circolare della repubblica di Barbiana a tutti i suoi rappresentanti diplomatici all’estero. Loro sedi.
Barbiana, 5.7.1965.

“ Cari,
ieri sera ero, come sempre la domenica, stanco e circondato da ospiti e avevo appena il fiato per scrivere a uno di voi, ma non sapendo a chi scrivere non ho scritto a nessuno. Così oggi ho pensato di rimediare con una circolare.
Sabato eravamo in piena Inghilterra anche a Barbiana, e quacchera per giunta. Son arrivati quattro quaccheri qualunque quasi curiosi e pieni di cuore. Due maschi e due mogli. Li abbiamo tenuti a tavola e poi portati nel fosso¹ e interrogati sulla loro religione. Abbiamo tentato di capire di che si tratta in pratica, perché di che si trattasse in teoria l’avevamo già studiato la mattina alla voce quaccheridella Treccani.
Il fondamento della loro riunione è il silenzio. Se poi a qualcuno pare di essere tra i mossi a parlare, si alza e tutti lo ascoltano anche se è uno studentello presuntuoso o una vecchia zitella insopportabile perché in ognuno c’è un that (qualcosa) di Dio. Evidentemente è una religione d’élite perché ognuno deve avere la capacità di parlare in pubblico e di sopportare le altrui fregnacce.
Hanno detto che, appena in Inghilterra, sarà facile per loro trovare delle case dove Silvano e il Biondo² possano entrare come ospiti non paganti. Così ho pensato che li farò partire a settembre. Non ha invece risposto la vedova maestra e quacchera che dovrà ospitare il Buti. E ha risposto un po’ inviperito D.P. che essendosi accorto che avevamo mandato diverse richieste eguali a diverse persone in Inghilterra si lamenta che così si fa perdere tempo alla gente e che certamente si sovrapporranno le offerte. Non sa che ne abbiamo mandate 32 e che ciò nonostante sono state appena appena sufficienti per sistemarne un paio.
Stamane sono venuti i genitori Turchi a riportare Mauro che era scappato ieri per non sapere o non volere rendere ragione delle 35 mila lire con le quali l’ho mandato a Roma insieme al selvatico³ (per chi non lo sapesse è quel ragazzo che incontrai in macchina). Il selvatico stesso invece non si è più fatto vedere. Pare proprio che ne abbiano combinato una. Il Turchi padre rimproverava calmo il bambino in mia presenza e tentava di fargli dire come li aveva spesi; quando però ha saputo che ieri Mauro rispondeva « So una sega io come li ho spesi », allora il povero padre straziato si è messo a piangere perché non aveva mai pensato che il frutto delle sue viscere potesse usare così orribili parole. Non si riesce mai a indovinare quale sarà la mancanza che strazierà i genitori e quale quella che li inorgoglirà d’avere un figliolo galletto. ”

¹ Posto all’ombra dove si faceva scuola d’estate nelle ore più calde.
² Ragazzi della scuola.
³ Mauro e il « selvatico » erano due ragazzi di Vicchio di 13 e 14 anni che venivano da poco a scuola a Barbiana. Tutti e due non avevano mai viaggiato in treno né erano mai usciti da Vicchio. Così, dopo aver passato un mese intero a studiarsi tutte le specie di animali dello zoo, furono mandati da soli per qualche giorno a Roma con 35 mila lire. Al ritorno non vollero spiegare come avevano speso la somma.

———

Brano tratto da:

Lettere di don Lorenzo Milani priore di Barbiana, a cura di Michele Gesualdi, Milano, A. Mondadori (collana Oscar n° 431), 1976 [1ª Edizione: 1970]; pp. 201-202.

“ Le varie amministrazioni comunali ingaggiarono apposite squadre anticavallette che durante l’estate battevano ed animavano le campagne. Il loro intervento, però, anche se tempestivo, si rivelò inefficace sin dall’inizio. Era sempre un intervento localizzato come quello dei teloni dei pastori. Si trattava infatti di squadre fornite di lanciafiamme a benzina da usare sui punti dove le cavallette si ammassavano. Ma le uova che la terra conteneva e fecondava erano inesauribili e nonostante i campi fossero ridotti a piazzuole nere e sparse di roghi, continuamente, il giorno successivo erano sempre zeppi di nuove locuste più affamate, giunte in volo o sbucate dalla terra.
La stessa cosa accadde più tardi con la «crusca avvelenata» che i pastori erano obbligati a spargere per il proprio campo, ma sempre in maniera localizzata. Succedeva che la benzina si esauriva, la crusca avvelenata finiva, ma le cavallette aumentavano sempre quasi per incanto. Calavano dal cielo o spuntavano dal suolo, dalle uova dell’anno precedente.
Il loro ciclo vitale durava da maggio a luglio. Ma quanta strage. Negli ultimi giorni della loro vita covavano nel suolo, crivellandolo letteralmente con il loro culo acuminato per deporvi le uova. Io osservavo questa operazione con curiosità. La femmina si disponeva in un punto del terreno (duro e possibilmente solido). Lentamente con il culo appuntito cercava di far breccia sforzandosi sulle zampe. Una volta che il suo culo era indirizzato verso il suolo, quattro compagni le si affiancavano e la sorreggevano ritta dirigendola e spingendola verso il basso perché la coda penetrasse più profondamente possibile. Così sorretta, con il culo allungato dallo sforzo e per metà sprofondato nella terra, secerneva dei succhi e in breve fabbricava una specie di capsula impenetrabile all’acqua invernale e al freddo comune e vi deponeva le uova senza mai muoversi. Finita questa operazione, i compagni che avevano solo il compito di spingere e sorreggere la femmina mentre avveniva la deposizione delle uova, si allontanavano uno alla volta lasciando che la femmina completasse il proprio compito.
Lungo i sentieri quando passavo con il gregge dietro il suo nembo di polvere, io potevo osservare l’ultima operazione delle cavallette prima che morissero. Ai lati del sentiero o dove si passava, questi gruppi a cinque si sperdevano a vista d’occhio. Qualcuno, anzi, lo segnalavo per rivedermelo a due o tre ore di distanza. Quando ci ripassavo potevo notare che il culo della femmina, ben sorretta dai compagni, era sprofondato sempre di più. Spesso il gruppo lo trovavo già disciolto. Qualche volta mi divertivo a scavare per estrarre la capsula delle uova, e spesso a schiacciare questi gruppi in azione finché non mi stancavo.
Un’operazione più efficace venne però nel ‘46 tramite l’irrorazione periodica dei pascoli, a rotazione, con l’arsenico. I pascoli venivano completamente avvelenati più volte, a turno e per contrade, in tutto il territorio del comune (a cussosas, in s’aidattone), in modo da consentire ai pastori di sfamare il proprio gregge senza che corresse il rischio di morire avvelenato. I chiusi divenivano pascolabili dopo una leggera pioggia o dopo un determinato periodo. Il veleno era potente. Terribile. Nessuna cavalletta che si trovasse sul campo o vi sopraggiungesse in volo o vi sgusciasse dalle capsule poteva sopravvivere. Finalmente la campagna a poco a poco cambiò aspetto al punto da sembrare un campo nevicato da una grandine vulcanica e rossiccia. Da una «neve» di insetti morti e bruciati dal veleno, che non ondulava né giocava più il terreno nell’orgia della sua danza famelica. “

Gavino Ledda,Padre padrone, Rizzoli (collana Piccola Biblioteca La Scala), 2004; pp. 63-65.

[ 1ª edizione: Padre padrone.L’educazione di un pastore, (collana Franchi Narratori n° 19) Feltrinelli, Milano, 1975 ]

“ Chi lui fosse veramente, non m'interessava, e poi ci voleva poco a capirlo. Ma chi era lui per Mira, ecco, solo questo lo faceva esistere per me. Tanto nessuno esiste per sé, mi dicevo, ognuno è inventato dall'altro. Mira non è stata inventata da me giorno per giorno? E io non sono per lei una persona a me stesso sconosciuta? Ciò vale dunque anche per Walter, per tutti, e non ci vuole poco a capirlo. Perché siamo forse soltanto proiezioni altrui, quasi sempre incapaci di stabilire una connessione tra ciò che si è per sé e ciò che si è per l'altro, o ciò che un altro è per gli altri, e così via…
Nella piazza, davanti all'edicola, c'era un gruppetto di persone ferme a curiosare, attratte dai titoli dell'ultima edizione. Grandi titoli neri che annunciavano una guerra sul 38° Parallelo. Mi avvicinai anch'io per leggere. Mi domandai dove si trovava il 38° Parallelo, quale rapporto mai ci fosse tra le private mie vicende, i problemi veri o falsi inseguiti tutt'oggi, e la vicenda che si svolgeva in quell'estrema parte del globo, laggiù. Il 38° Parallelo rappresentava per ora solo un'espressione geografica, un punto di riferimento convenzionale. Ma mentre leggevo quei titoli minacciosi su otto colonne fui preso da una inquietudine strana, diversa da quella provata oggi. Mi vidi di nuovo sfollato nel triste e solitario paesino di montagna, di lì la guerra pareva lontana, lontanissima, e d'improvviso una sera il giornale arrivò con la notizia che il fronte avanzava, si spostava verso di noi, e la guerra ci avrebbe travolto tra poco, senza tanti riguardi, ci sarebbe passata addosso… Un rapporto si stabilisce sempre, prima o poi, non c'è scampo. Stavo indugiando su queste ed altre analoghe considerazioni, quando una mano mi toccò sulla spalla. “

Raffaele La Capria,Un giorno d'impazienza, Bompiani, 1976 (riscrittura dell'opera prima dell’autore, pubblicata nel 1952); pp. 77-78.

“ Tutti i giurati portavano all’occhiello della giacca il distintivo del partito fascista; ma se a ciascuno di loro, confidenzialmente, fosse stato domandato se si sentiva fascista, con qualche esitazione avrebbe risposto di sì; e se la domanda gli fosse stata fatta ancor più confidenzialmente, dentro ristretta cerchia e aggiungendo un « veramente », uno - pare di poter dire - avrebbe nettamente risposto di no, mentre gli altri avrebbero evitato il sì: e non per prudenza, ma sinceramente. Non si erano mai posto il problema di giudicare il fascismo nel suo insieme, così come non se lo erano posto nei riguardi del cattolicesimo. Erano stati battezzati, cresimati, avevano battezzato e cresimato, si erano sposati in chiesa (quelli che si erano sposati), avevano chiamato il prete per i familiari morituri. E del partito fascista avevano la tessera e portavano il distintivo. Ma tante cose disapprovavano della chiesa cattolica. E tante del fascismo. Cattolici, fascisti. Ma mentre il cattolicesimo stava allora lì, fermo e massiccio come una roccia, per cui sempre allo stesso modo potevano dirsi cattolici, il fascismo no: si muoveva, si agitava, mutava e li mutava nel loro sentirsi - sempre meno - fascisti. Il che accadeva in tutta Italia e per la maggior parte degli italiani. Il consenso al regime fascista, che per almeno dieci anni era stato pieno, compatto, cominciava ad incrinarsi e a cedere. La conquista dell’Etiopia, va bene: benché non si capisse come mai ad un impero conquistato corrispondesse, per i conquistatori, un sempre più greve privarsi delle cose che prima, almeno per chi poteva comprarle, abbondavano. E poi: perché mai Mussolini era andato a cacciarsi nella guerra spagnola e in una sempre più stretta amicizia con Hitler?
E anche se si continuava a ripetere, sempre più straccamente, l’iperbole del dormire con le porte aperte, era quella porta aperta al Brennero che cominciava a inquietare: che magari non vi sarebbero affluite e dilagate le forze della devastazione e del saccheggio, ma pareva vi affluissero già e dilagassero gli stormi del malaugurio. Andava sempre peggio, insomma. E il « quieto vivere », la cui ricerca tanta inquietudine aveva dato nei secoli a coloro che vi aspiravano, cominciava a disvelarsi sempre più lontano e irraggiungibile. Il partito fascista diventava sempre più obbligante, nell’esservi dentro; e sempre più duro, nell’esservi fuori. “

Leonardo Sciascia,Porte aperte, Adelphi (collana Fabulan° 18), 1987¹; pp. 71-72.

“ Ada, la bambinaia di Marco, non dette, a dire il vero, segni di una vera e propria pazzia. Ogni tanto se ne andava senza salutare i padroni e rimaneva lontano intere settimane. Un giorno, proprio nel mezzo della cucina, preso Marco, che era ancora in gonnellino, lo lanciò in alto verso il soffitto lasciandolo cadere senza riprenderlo a tempo. Per poco il bimbo non morì di colpo. Quando Marco fu più grande, Ada, che era rimasta nella casa come donna di servizio, lo divertì leggendogli libri d'avventure e raccontandogli fatti meravigliosi. Fu lei a narrargli la storia di suo fratello Ardito, l'altro pazzo.
Ardito era fuggito di casa quando il padre era ancora in vita, e aveva girato il mondo. Perfino in Africa e a Pechino, era stato. Portava sul corpo le testimonianze del suo eterno vagabondare : tatuaggi raffiguranti draghi, case, palazzi, negri e cinesi. In verità Ardito era uno di quegli avventurieri creati, come spesso accade, dalla immaginazione dei concittadini e le sue avventure si riducevano a parecchie truffe, le sue peregrinazioni alle conseguenti permanenze in carcere. Marco però se lo era raffigurato quale glielo aveva descritto Ada : bizzarro viaggiatore col corpo dipinto come un pappagallo.
Quando Marco andò ad abitare in città dai nonni, nella casa dei pazzi viveva soltanto la vecchia madre. Cercò di sapere dove fossero Ada, che si era licenziata da due anni e che non aveva più veduta, e Ardito, ma nessuno, neppure la loro madre, lo sapeva. Fantasticò a lungo su questa misteriosa, lontananza. Parlava spesso di Ada e di Ardito anche con la mamma ed essa gli raccontava di loro cose a lui sconosciute.
Un giorno mentre si divertiva in giardino vide nel profondo e piccolo cortile dei pazzi un uomo ancor giovane, vestito dei soli pantaloni di tela e sdraiato in terra a prendere il fresco ; aveva la pelle del torace bruna con le più strane figure. Non c'era alcun dubbio : quel giovane era Ardito. Marco cominciò ad osservarlo attentamente, incuriosito : poteva infine conoscere la persona che, più di ogni altra, aveva occupato e occupava i suoi pensieri. A un tratto Ardito balzò in piedi e, rapidamente, arrampicandosi su per il muro, arrivò all'altezza del giardino, a pochi metri da Marco. Il ragazzo scoprì sul suo dorso il disegno di un lungo pugnale. Ardito ripiombò nel cortile e si sdraiò di nuovo in terra. Egli era stato veramente il protagonista delle innumerevoli avventure narrate da Ada ; la sua prodigiosa agilità e la figura del pugnale sembrarono a Marco le prove più certe. Però egli n'ebbe una pungente paura. La notte Ardito apparve costantemente in un sogno in cui si tentava di rapirgli la mamma. Da quella sera, prima di andare a letto, volle accertarsi che la porta del giardino fosse bene sprangata. “

Romano Bilenchi,Dino e altri racconti, Vallecchi editore, Firenze, giugno 1944²; pp. 58-61.

IL COMODINO DEI SERPENTI – Il comodino di Manuela Di Vito (maggio 2014) IL COMODINO DEI SERPENTI – R

IL COMODINO DEI SERPENTI – Il comodino di Manuela Di Vito (maggio 2014)

IL COMODINO DEI SERPENTI – Rubrica dedicata ai libri sul comodino

Il comodino di Manuela Di Vito

Ok, ho appena finito di leggere Ragazze di campagna di Edna O’Brien (trad. di Cosetta Cavallante, Elliot, 2013) e sbotto: quanto non mi piacciono i finali aperti! I non finali, quelle storie che sai dove cominciano ma non sai dove vanno a parare. Certo, è una dolcissima fotografia dell’adolescenza femminile e dell’Irlanda, dei luoghi che per altro ho visitato la scorsa estate: Wicklow, Galway, Dublino. Più che natura selvaggia campagna selvaggia e collinosa, come l’animo di due ragazze di quattordici anni, tra le cui pieghe, fossi boschetti cespugli sali e scendi,  si rintana sempre qualcosa, nascosto alla vista di chi le circonda. Un pensiero, un sentimento, un gesto, un cane, un uomo. Un uomo, non un ragazzo. Ma manca il finale!

Forse è per questo che, subito dopo, come niente attacco IlPianeta di Standish di Sally Gardner (trad. di D. Vezzoli, Mondadori, 2013) ed ecco una storia a cui invece manca l’inizio. La fine c’è, qui, ed è proprio una fine coi fiocchi. È il Piccolo principe cresciuto che però trova di nuovo la stessa, tristissima strada per tornare a casa. Casa, che qui però non si chiama B 612 ma Pianeta Platone ed è il luogo dove si rifugiano i sogni di due ragazzi, Standish ed Hector. Sogni scappati da una Terra in cui è diventato impossibile esistere. Eppure nessuno ci dice bene cos’è successo, mai, nessuno ci spiega chi sono gli uomini con la giacca di pelle e gli occhiali scuri né gli Afidi Verdi, nessuno ci fa mai incontrare un Ostruzionista o ci parla di una guerra in particolare. Tutto si risolve nel giro di poche settimane e quello che riusciamo a vedere è solo ciò che vede, ricorda e pensa Standish Traedwell. Quello che fa. Racconto distopico, appassionante cifra stilistica. La voce del protagonista è chiara e distinta e riesce a portarti con lui. Tu che non sai niente ma conosci solo Standish e non riesci a mollarlo, gli stai incollato, fino alla fine.

Ora ho capito che ci sono le storie che sono storie, che hanno un inizio e una fine, le storie fatte di tempo, sequenze, accadimenti, persone, quelle che magari hanno pure una morale, e poi ci sono altre storie. Queste ultime non sono fatti ma nomi. I loro confini non sono segnati da quella materia sfuggente che è il tempo ma da carne e sangue e soprattutto pelle, e queste cose, per quanto materiali, sono infinite.
Dopo aver navigato per mari nuovi è bene però, tornare ogni tanto presso lidi conosciuti. Tu che mi consigli Jane, di leggere stasera? A rispondere non è lei direttamente ma per sua vece Fanny: Di certo tieniti lontana da Lovers’ Vows, risponde con un certo turbamento nella voce e, se proprio, leggi Sir Walter Scott e sogna «molti scudi e laceri stendardi».
Cara, carissima Fanny, tu sei l’emblema stesso del conosciuto che si oppone al cambiamento, la stabilità che tiene testa ad ogni scossone che la modernità porta con sé, la tua non è passività ma forza, la tua immobilità è resistenza e Mansflied Park di Jane Austen (trad. di L. De Palma, BUR, 2002) è il regno che tu difendi con coraggio. Non sapevi che è inutile opporsi al cambiamento ed è un bene, poiché altrimenti non ci avresti insegnato che val la pena, per lo meno, sempre di provare a restare se stessi, anche in mezzo alle tempeste e alle guerre.

Infine, dopo non so quanto tempo, eccomi qui, a tornare su un classico che per me è nuovo, e ancora, pure, alla mia vecchia passione che sono i libri per ragazzi che, però, solo per ragazzi non sono mai. Sto finendo di leggere, ora, La collina dei conigli di Richard Adams (BUR 2013) e mi sono innamorata, che un coniglio di più non potrebbe, di quell’«aperta campagna coltivata» dell’Hampshire, fatta di «ampi soffici pascoli, in lieve pendio e divisi, non da siepi, ma da argini, non tanto alti, larghi come un viottolo e sui quali crescevano sambuchi, cornioli, evònimi», «praticelli colorati come arazzi, trapunti di centaura, di brunella e tormentilla». Sembra un poetico trattato di botanica, completo di odori che cambiano a ogni ora del giorno, e invece è un’avventura meravigliosamente narrata di animali che sembrano uomini – hanno una lingua, il lapino, usi e costumi, una mitologia – e ci fa ricordare che, tolto il pelo, sono gli uomini a non essere altro che animali, per fortuna e senza togliere niente a nessuno.

Qui gli altri comodini.

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“Amava

le carezze impudiche

della Sua mente…

quelle che divenivano mani,

le provocavano respriri profondi

e… piaceri intensi.

Quelle che le entravano dentro

e non le davano più… via di scampo.”

Il Silente Loquace ©

@ilsilenteloquaceblog

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Sempre d’amore si tratta.

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