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L’IMPERIALISMO È GUERRA

“ L'attuale crisi economica che coinvolge il sistema imperialistico nel suo complesso è crisi di sovrapproduzione assoluta di capitale rispetto all'intera area capitalistica occidentale. Il mezzo con cui l'imperialismo ha sempre storicamente risolto le sue periodiche crisi di sovrapproduzione è stata la guerra. Infatti la guerra permette innanzi tutto alle potenze imperialiste vincitrici di allargare la loro base produttiva a scapito di quelle sconfitte, ma soprattutto guerra significa distruzione di capitali, merci, e forza lavoro, quindi possibilità di ripresa del ciclo economico per un periodo di tempo abbastanza lungo.
All'imperialismo in questa fase si ripropone quindi il dramma ricorrente della produzione capitalistica: ampliare la sua area per poter ampliare la sua base produttiva.
Infatti rimanere ancora “ristretto” nell'area occidentale, significa per l'imperialismo accumulare contraddizioni sempre più laceranti: la concentrazione dei capitali cresce in modo accelerato, il saggio di profitto raggiunge valori bassissimi, la base produttiva diviene sempre più ristretta, la disoccupazione aumenta paurosamente. A brevi e apparenti momenti di ripresa seguono inevitabilmente fasi recessive sempre più gravi e si determina così di fatto un processo di crisi permanente (lo svolgersi della crisi in questi ultimi anni lo dimostra ampiamente).
Si pone perciò all'imperialismo la necessità sempre più impellente di allargare la sua area. Ma questo allargamento può avvenire solo a spese del Social-Imperialismo (URSS e paesi del Patto di Varsavia) e conduce quindi inevitabilmente allo scontro diretto USA-URSS.
Gli scontri parziali per “interposte persone” a cui stiamo assistendo in Medio Oriente, Africa non sono che i primi passi di questo processo.
È questa quindi la prospettiva storica che il capitale monopolistico multinazionale pone in questa fase a se stesso e al movimento rivoluzionario. All'interno di questa prospettiva storica la posizione del proletariato non può che oggettivamente porsi come urto frontale e decisivo con il dominio imperialista e la sua diretta tattica non può che essere fissata da questa stessa prospettiva storica: o guerra di classe nella metropoli imperialista o terza guerra imperialista mondiale.
Le varie potenze imperialiste infatti non possono farsi guerra se non hanno il proprio retroterra “pacificato e solidale” per poter così sostenere la durezza dello scontro. Si potrebbero fare molti esempi di guerre interimperialistiche che si sono concluse appena si è presentato anche solo il pericolo della rivoluzione comunista e i diversi imperialismi, che prima si mostravano acerrimi nemici, si sono uniti contro il proletariato insorto in armi. Ne bastino due: la Comune di Parigi e la Rivoluzione d'Ottobre. “

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Brano tratto dalla Risoluzione della direzione strategica delle Brigate Rosse, testo diramato nel febbraio 1978 e raccolto in:

Moro: una tragedia italiana - le lettere, i documenti, le polemiche, a cura di Giorgio Bocca, Milano, Bompiani (collana Tascabili / Saggi - Storia contemporanea, n°116), maggio 1978¹; p. 51.

“ La filosofia cui si ispira la concezione della «casa comune europea» esclude ogni conflitto armato, la stessa possibilità dell'impiego della forza o della minaccia della forza, innanzi tutto militare. Al posto della dottrina della deterrenza, essa propone la dottrina della moderazione. E non si tratta di sfumature di concetti, ma di una logica dettata dalla stessa realtà dello sviluppo europeo.
I nostri obiettivi ai negoziati di Vienna sono noti. Noi riteniamo pienamente realizzabile — e anche il Presidente Usa è dello stesso avviso — l'abbassamento sostanziale, nell'arco di 2-3 anni, del tetto degli armamenti in Europa, naturalmente eliminando tutte le asimmetrie e gli squilibri. Sottolineo tuttele asimmetrie e gli squilibri. Non sono ammissibili due diversi metri di misura. Siamo convinti che sia tempo di avviare anche i negoziati sui mezzi nucleari tattici tra tutti i paesi interessati. L'obiettivo finale è la completa eliminazione di quest'arma. Essa minaccia gli europei, che non hanno alcuna intenzione di farsi la guerra l'uno contro l'altro. Allora a cosa e a chi serve?
Liquidare gli arsenali nucleari oppure conservarli a qualsiasi costo? La strategia della deterrenza nucleare rafforza o mina la stabilità? Su questi problemi le posizioni della Nato e del Trattato di Varsavia appaiono diametralmente opposte. Ma noi non drammatizziamo le divergenze. Noi cerchiamo soluzioni e invitiamo i nostri partner a fare altrettanto. Infatti consideriamo la liquidazione dell'arma nucleare come un processo graduale. E parte della distanza che ci separa dalla completa eliminazione dell'arma nucleare gli europei possono percorrerla insieme, senza rinunciare alle propri posizioni: l'Urss, restando fedele ai propri ideali non nucleari, l'Occidente alla concezione della «deterrenza minima».
Tuttavia occorre comprendere cosa s'intende per «minima», e dov'è il limite, varcato il quale il potenziale di ritorsione nucleare si trasforma in potenziale offensivo. Ci sono molti punti oscuri, e la reticenza è fonte di sfiducia.
Allora perché gli esperti di Urss, Usa, Gran Bretagna e Francia, nonché degli Stati nei cui territori è dislocata l'arma nucleare, non discutono approfonditamente questi problemi? Se essi arrivassero a una qualche valutazione comune, il problema si semplificherebbe anche a livello politico.
Se i paesi della Nato dimostreranno la propria disponibilità a negoziare con noi sugli armamenti nucleari tattici, potremo — consultandoci, naturalmente, con i nostri alleati — avviare senza indugi un'ulteriore riduzione unilaterale dei nostri missili nucleari tattici di stanza in Europa. “

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Brano tratto dal discorso dell’ultimo segretario del Pcus all’assemblea del Consiglio d’Europa riunita a Strasburgo il 6 luglio 1989; il testo (intitolato Appello all’Europa: dall’Atlantico agli Urali) è in:

Mikhail GorbaciovLa casa comune europea, A. Mondadori (collana Frecce; traduzione in italiano a cura dell’editore sovietico), 1989¹; pp. 216-217.

[Prima edizione: Агентство печати «Новости» (АПН), Mosca, 1989]

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