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O vírus è o capitalismo

Chinks in the capitalism system – the pertinence of Islamic finance http://www.aabri.com/LV2012Manus

Chinks in the capitalism system – the pertinence of Islamic finance
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“…Interest (usury), considered a taboo in Islam, has been one of the major causes of the financial crises in the West with the recent ones being the American subprime crisis and European….usury is just not acceptable in Islam and would be destructive in any economic system.” #capitalism #capitalismkills #capitalismsucks #capitalismo #anticapitalism #fuckcapitalism #usury #usuryquotes
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“…Interest (usury), considered a taboo in Islam, has been one of the major causes of the fina

“…Interest (usury), considered a taboo in Islam, has been one of the major causes of the financial crises in the West with the recent ones being the American subprime crisis and European….usury is just not acceptable in Islam and would be destructive in any economic system.” #usury #capitalism #capitalismo #capitalismkills #capitalismsucks #anticapitalism #fuckcapitalism
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“ Finché il mondo resterà diviso in Stati sovrani, ciascuno di essi si porrà il fine della potenza militare, e la conseguenza sarà il potenziamento industriale, giacché non si dà l'una senza l'altro. Che importerà ai governanti che vadano in malora l'ambiente naturale e il patrimonio artistico? Meno che niente. E meno che niente importerà, purtroppo, ai governanti, finché le necessità della difesa appariranno loro preminenti.
Il nemico anche per gli ecologi è dunque lo Stato sovrano armato. La battaglia ecologica ha una sola possibilità di riuscire vittoriosa: che venga prima vinta la battaglia antimilitarista.
Compagni marxisti mi obiettano che il principale male da combattere è il capitalismo. Compagni cattolici mi obiettano che la cosa più importante è la rinascita dello spirito cristiano. Gli uni e gli altri non danno peso alla divisione del mondo, qualcuno arriva perfino a sostenere la tesi aberrante che l'armamento è un bene, in quanto giova all'equilibrio delle forze (cioè, all'equilibrio del terrore).
Alcuni tra gli stessi compagni anarchici mi rimproverano di fare un discorso parziale: separata dalla lotta contro lo Stato, la lotta contro il militarismo sarebbe inefficace. È vero il contrario: la lotta contro il militarismo può tanto più facilmente trovare aderenti quanto più è separata dalla lotta contro lo Stato (o contro il capitalismo, o contro lo spirito anticristiano).
Lo Stato, il capitalismo, lo spirito anticristiano sono mali anche per me: ma l'era atomica ha imposto un ordine di priorità che dobbiamo rispettare. Non è che i problemi della libertà e della giustizia siano stati vanificati. Ma non è da essi che si può più partire per impostare una battaglia politica. La spinta umanitaria che ci ha costretto a occuparci di politica e a diventare antifascisti resta integralmente valida: ma in seno ad essa l'ordine di priorità nella soluzione dei problemi è cambiato. Solo la battaglia per la pace può includere anche le altre.
La battaglia per la giustizia sociale, cioè la battaglia contro il capitalismo, o quella per la rinascita dello spirito cristiano, o quella contro lo Stato, non devono diventare alibi per disertare la sola battaglia che sia possibile fare e che sia importante fare: quella contro il militarismo italiano.
Oggi come oggi non si vede come abbattere il capitalismo, o come far nascere una diffusa coscienza antistatalista. Mentre si vede come far nascere una diffusa coscienza antimilitarista, e come abbattere il militarismo italiano.
Ed ecco saltar su i pacifisti da strapazzo, cioè i guerrafondai travestiti da pacifisti: «Proprio dal militarismo italiano dobbiamo cominciare? Il disarmo non deve partire dai colossi che minacciano davvero la pace nel mondo, cioè dagli Stati Uniti, dall'Unione Sovietica, dalla Cina?» Rispondo parafrasando Lenin: «La catena del militarismo può essere spezzata in qualsiasi punto. L'Italia rappresenta uno degli anelli più deboli? Tanto meglio: vuol dire che noi italiani siamo facilitati in questa lotta. Spezzare la catena del militarismo nell'anello più debole, può diventare il nostro motto».
Certo, si tratterebbe di un intervento che porrebbe fine a un'istituzione millenaria. Ma quando mai la politica della sinistra è consistita nello stare a vedere, nel lasciar correre, nel tenere in piedi tutto quello che il passato ci ha trasmesso, nel lasciare che il mondo vada alla deriva? La politica della sinistra è sempre consistita nel rinnovare, nello svecchiare. “

Carlo Cassola,La lezione della storia. Dalla Democrazia all’Anarchia: una via per salvare l’Umanità, BUR, 1978¹; pp. 93-95.

L’IMPERIALISMO È GUERRA

“ L'attuale crisi economica che coinvolge il sistema imperialistico nel suo complesso è crisi di sovrapproduzione assoluta di capitale rispetto all'intera area capitalistica occidentale. Il mezzo con cui l'imperialismo ha sempre storicamente risolto le sue periodiche crisi di sovrapproduzione è stata la guerra. Infatti la guerra permette innanzi tutto alle potenze imperialiste vincitrici di allargare la loro base produttiva a scapito di quelle sconfitte, ma soprattutto guerra significa distruzione di capitali, merci, e forza lavoro, quindi possibilità di ripresa del ciclo economico per un periodo di tempo abbastanza lungo.
All'imperialismo in questa fase si ripropone quindi il dramma ricorrente della produzione capitalistica: ampliare la sua area per poter ampliare la sua base produttiva.
Infatti rimanere ancora “ristretto” nell'area occidentale, significa per l'imperialismo accumulare contraddizioni sempre più laceranti: la concentrazione dei capitali cresce in modo accelerato, il saggio di profitto raggiunge valori bassissimi, la base produttiva diviene sempre più ristretta, la disoccupazione aumenta paurosamente. A brevi e apparenti momenti di ripresa seguono inevitabilmente fasi recessive sempre più gravi e si determina così di fatto un processo di crisi permanente (lo svolgersi della crisi in questi ultimi anni lo dimostra ampiamente).
Si pone perciò all'imperialismo la necessità sempre più impellente di allargare la sua area. Ma questo allargamento può avvenire solo a spese del Social-Imperialismo (URSS e paesi del Patto di Varsavia) e conduce quindi inevitabilmente allo scontro diretto USA-URSS.
Gli scontri parziali per “interposte persone” a cui stiamo assistendo in Medio Oriente, Africa non sono che i primi passi di questo processo.
È questa quindi la prospettiva storica che il capitale monopolistico multinazionale pone in questa fase a se stesso e al movimento rivoluzionario. All'interno di questa prospettiva storica la posizione del proletariato non può che oggettivamente porsi come urto frontale e decisivo con il dominio imperialista e la sua diretta tattica non può che essere fissata da questa stessa prospettiva storica: o guerra di classe nella metropoli imperialista o terza guerra imperialista mondiale.
Le varie potenze imperialiste infatti non possono farsi guerra se non hanno il proprio retroterra “pacificato e solidale” per poter così sostenere la durezza dello scontro. Si potrebbero fare molti esempi di guerre interimperialistiche che si sono concluse appena si è presentato anche solo il pericolo della rivoluzione comunista e i diversi imperialismi, che prima si mostravano acerrimi nemici, si sono uniti contro il proletariato insorto in armi. Ne bastino due: la Comune di Parigi e la Rivoluzione d'Ottobre. “

———

Brano tratto dalla Risoluzione della direzione strategica delle Brigate Rosse, testo diramato nel febbraio 1978 e raccolto in:

Moro: una tragedia italiana - le lettere, i documenti, le polemiche, a cura di Giorgio Bocca, Milano, Bompiani (collana Tascabili / Saggi - Storia contemporanea, n°116), maggio 1978¹; p. 51.

“ Il padrone ce l’ha il cane, continuano a ripetere certi contadini toscani, mezzadri per la precisione. Ma quello è un proverbio ottimista, errato, dove si confondono l’essere e il dover essere. In realtà il padrone l’abbiamo tutti, allo stesso modo in cui tutti abbiamo una mamma e, se va bene, tutti abbiamo una casa. La schiavitù è durata tanti secoli, e in certi Paesi dura ancora, per colpa non dei padroni, ma degli stessi schiavi, i quali godevano d’una posizione privilegiata e mal volentieri si rassegnarono a perderla: mantenuti per tutta la vita insieme alle mogli e ai figli, con la pensione assicurata. È vero, il padrone poteva anche ucciderli, allo stesso modo in cui io, volendo, posso bruciare la mia casa, che sarebbe una bella mattana. Un onere troppo gravoso, di cui i padroni si sono liberati, trasformando gli schiavi in servi della gleba, poi in mezzadri e finalmente in braccianti, salariati, stipendiati. Tutta gente che viene pagata a giornata (anzi a bella giornata, perché se piove non beccano una lira) e si può licenziare a piacimento. Mogli e figli a carico.
La tendenza naturale dell'uomo a trovarsi un padrone appare anche in certe locuzioni che si sentono in bocca a persone stimate, come per esempio «al servizio della patria», oppure del Paese, della fede, del pubblico, eccetera. Sulle maniere più opportune per riconoscere, accostare, utilizzare un padrone si sono scritti libri su libri. Il più celebre porta la firma di Niccolò Machiavelli, e chi vuole può consultarlo con poca spesa e molto profitto. “

Luciano Bianciardi,Non leggete i libri, fateveli raccontare. Sei lezioni per diventare un intellettuale dedicate in particolare ai giovani privi di talento, Edizioni Stampa Alternativa/Nuovi Equilibri (collana Eretica), 2008; pp. 38-40.

NOTA: Il libro raccoglie sei ironici articoli pubblicati nel 1967 su sei numeri consecutivi di “ABC”, settimanale culturale milanese anticonformista e anticlericale che aderì a numerose campagne civili, dall’aborto all’obiezione di coscienza, alla libertà sessuale, alla laicità dello stato. Significativa fu la sospensione delle pubblicazioni di questo periodico nel 1975 dovuta secondo Lidia Ravera al titolo di copertina «Polizia assassina».

“ Nel lontano 2006, quando da poco era tornata al governo la coalizione di centro-sinistra, Luciano Gallino scrisse sul quotidiano «la Repubblica», di fronte alla consueta recrudescenza di morti sul lavoro, che il solo provvedimento necessario era l’immissione massiccia di nuovi ispettori del lavoro. Il 29 dicembre 2007 moriva la settima vittima della ThyssenKrupp. Dopo quindici anni siamo ancora lì. Anzi la situazione è, se possibile, peggiorata. Le tecniche volte ad «eludere o violare» le norme (per dirla col presidente Mattarella) si sono moltiplicate: prima tra tutte la proliferazione di sub-appalti che rende arduo identificare chi sanzionare, ammesso che si voglia davvero – come si esprime «il dicastero» – prendere «misure sospensive e interdittive». Per chi non accetta il cosiddetto «green pass» c’è l’immediata sospensione dello stipendio, per le aziende omicide si studiano «misure sospensive e interdittive».
Il 5 agosto del 2021 il «Corriere della Sera» dedicò un’intera pagina (p. 23) al problema, in un intervento a cura di Riccardo Bruno. Titolo: Ogni giorno 3 morti sul lavoro.
Il rischio è che l’espressione «sinistra di governo» significhi ormai soltanto «che occupa dei posti nel governo». Spettacolo di mediocrità e impotenza. Congedandosi dai giornalisti in procinto di andare in vacanza, il 6 agosto, il presidente del Consiglio [Mario Draghi] ha pensato che un cenno alla morìa sul lavoro andasse fatto. Ha tentato di fare il nome di Luana D’Orazio ma, non essendo molto informato, ha soggiunto: «almeno credo che si chiamasse così». “

Luciano Canfora,La democrazia dei signori, Laterza, gennaio 2022 (Corsivi dell’autore).

[Libro elettronico]

Moraleja del Coronavirus

Erich Fromm decía que las relaciones humanas amorosas siguen el mismo patrón que gobierna el mercado de bienes y trabajo. Y es verdad.


El capitalismo busca la inmediatez y sacar provecho de toda situación, esto es tanto en una relación patrón-obrero como en una pareja (relaciones de poder).


Somos mera mercancía, meros productos de consumo en dos mercados donde tenemos que “vendernos”: amor y trabajo. Bajo los valores capitalistas vamos a ser vistos y usados como objetos de satisfacción para otros y así cumplir con el rol en sociedad, en tanto la desigualdad social (privilegios) no desaparezcan y exista una autentica equidad, un trabajo en conjunto con el otro.

Enamorarse todos los días de la misma persona es algo revolucionario en una sociedad de usar y tirar que obliga a reemplazar constantemente aquello que “ya no sirve” por no suponer una “novedad”.

Writer Riley R.L. on the risks that come with cosmetics brands capitalizing on queer narratives.

Riley R.L

In this op-ed, nonbinary writer Riley R.L. shares the impact of makeup on their identity, and the risks that come with cosmetic brands capitalizing on queer narratives.

October 21, 2019

“They say beauty is in the eye of the beholder,” Lady Gaga declares in the launch video for her new makeup line. “But at Haus Laboratories, we say beauty’s how you see yourself.” The video features Gaga surrounded by a racially diverse, gender nonconforming group of models showing off glittery eye makeup and bold lip colors. Its message is about freedom, specifically the freedom to express your identity however you want to. “We want you to love yourself,” Gaga concludes, and she’s got just the thing to help us do it: For $49, you can get a trio of lip products in a variety of color combos, which the brand’s website calls “tools of self-expression and reinvention.”

The Haus Laboratories launch is just one of many examples of how the cosmetics industry has been using identity narratives to market their ads with LGBTQ consumers in mind. Through pride campaigns and inclusive marketing, brands like Morphe,Milk Makeup, and M.A.C are trying to push the cultural conversation around makeup forward by bringing queer, trans, and gender nonconforming faces to the forefront, apparently as a way to help normalize the varying expressions of our community.

This mirrors a larger shift in the beauty space. LGBTQ creators like Gigi Gorgeous,Jeffree Star, and Nikita Dragun have gained huge audiences online and created successful product collaborations, while major beauty publications like Elle,Cosmopolitan, and Allure have covered the rise of queer beauty influencers and gender-neutral cosmetics brands. It’s clear that the world of cosmetics is trying to move away from the conventional standards it was previously associated with to promote an aesthetic of freedom, however ambiguously defined that may be.

For many LGBTQIA people, makeup can play a valuable, if not complicated, role in exploring gender, something that rings true in my own story. The first time I wore eye shadow out of the house, I still largely identified with the gender I had been assigned at birth; I spent most of that night worrying about what wearing makeup while presenting as male might open me up to. I feared ridicule, harassment, even violence — things that, fortunately, had not been an average part of my day-to-day life. Wearing makeup that first time was the most aware I’d ever been of the grip that gendered expectations had on the way I lived, and that realization made me feel weak and unfulfilled; all my life, I could suddenly see, I’d been under the control of beliefs about gender that I didn’t agree with, and that I had internalized without ever choosing to.

Thankfully, nothing out of the ordinary happened that night. As a kind of resistance to those feelings of weakness, I made an effort to start wearing makeup more often, and became increasingly comfortable with choosing to present and express myself in a way that was more unconventional. Ultimately, makeup was one of many things that helped me come to terms with the fact that I felt more at home outside of traditional gender roles than I did within them, and that my identity fit better under the umbrella of nonbinary than it did under male.

For me, that revelation came with a reduced emphasis on how I presented. Nowadays, I rarely wear much makeup (neither do most of my trans and nonbinary friends). But as queer identity seems to become more and more intertwined with the cosmetics industry, I find myself shying away from sharing the role that wearing makeup—a purely aesthetic part of a deeply internal process—played in that time of self-discovery. When I watch someone sell makeup under the auspices of queer self-love, regardless of how well intentioned they might be, I can’t help but feel as if a story like mine is being packaged and sold to young queer people desperate to find confidence in their own identity.

“Sometimes beauty doesn’t come naturally from within,” Gaga muses on the Haus Laboratories website. “But I’m so grateful that makeup inspired a bravery in me I didn’t know I had.” The narrative is clearer than ever: If conventional aesthetic “beauty” is no longer a marketing team’s focus, then something like “bravery” must be; rather than encouraging consumers to fit in, it’s now about using makeup to help reveal “who you are.” These brands are leveraging LGBTQIA narratives to maintain relevance in a competitive market, thanks to the very real and very complicated relationship that trans, nonbinary, and gender nonconforming people like me have with cosmetics.

An example like Sephora’s “Identify As We” campaign, full of ethereal imagery and moving ideas about freedom and identity, is certainly a progressive alternative to the kinds of advertising I was exposed to growing up. It’s easy to recall the history of hypermasculine marketing for products like Axe, whose goal was to play on conventional gender roles to make sales. Today, some brands would like us to believe that they can do better, and that by focusing on the expansive understanding of gender the LGBTQ community provides, companies can push progress forward rather than reinforce tired stereotypes.

Recently, Jonathan Van Ness, one of Queer Eye’s fab five, revealed that he’s nonbinary to Out. “[Gender is] this social construct that I don’t really feel like I fit into the way I used to,” Van Ness shared. Couched in this personal revelation was Van Ness’s sponsorship with nail polish brand Essie, something he hopes will help inspire young people: “I always used to think, Oh, I’m like a gay man, but I think any way I can let little boys and little girls know that they can express themselves, and they can, like, be… making iconic partnerships with brands like Essie no matter how they present is really important and exciting.”

Van Ness and Essie, like many of the brands mentioned, seem to operate under the assumption that visibility alone can bring much needed change in how our culture regards gender nonconformance. And maybe they’re right; but as a nonbinary person, I can’t help but question: Would my self-perception really have been different had I seen someone like Van Ness wearing nail polish on a billboard while growing up? Would I have come to understand my identity sooner had I seen a gender nonconforming person on a cosmetics display?

Many queer people grow up with a longing to be seen and validated by popular culture in the way our straight and cisgender peers are. When we come to adulthood, I worry that lingering desire may leave us with an inability to protect younger generations from the potential risks that putting value in “visibility” can conceal. If we place our trust in advertising to advance our cause rather than sharing our stories on our own terms, we’re passing them over to those whose primary goal is to profit from them. These sanitized, corporate narratives run the risk of leading young queer people to believe that embodying their identity is as simple as buying the right lipstick or wearing the right nail polish, instead of expressing themselves in whatever way feels true to them.

By creating a narrative of self-actualization based on a product, it’s easy to erase the pain that can come too. For many queer and trans people, embodying your gender is not always fun, freeing, and transformative; it can also make you a target of discriminationandviolence. Every time I choose to walk out the door with makeup on, I’m choosing to do so in spite of the world I’m walking into. At its best makeup was often a grounding ritual that helped me come to terms with my own experience of gender. At its worst the reactions it caused — condescending compliments, strange looks, yells of “faggot” from passing cars — could make it feel like a way of inscribing the dissonance between my body and identity on my skin. Those experiences, like those endured by many in my community, are the ones you aren’t so likely to hear about in a beauty ad or the next big pride campaign, because they don’t fit the right narrative. We can’t ignore that these brands are more invested in their own survival than they are in ours, and we owe it to ourselves — and to those who’ll come after us — to be careful with how we allow others to use our stories.

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Sourcehttps://www.teenvogue.com/story/beauty-brands-queer-expression-makeup

Cuando votas lo mismo que el patrón. #humorgráfico #capitalismohttps://www.instagram.com/p/CeN7jOR

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