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(Podcast) La leggenda delle auto nere maledette

(Podcast) La leggenda delle auto nere maledette

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Una Volga Nera si muoveva lungo le strade periferiche della Russia sovietica, ma anche di altri paesi aderenti al Patto di Varsavia (soprattutto la Polonia).A bordo dell’inquietante auto si dice che ci fossero…… Agenti del KGB in cerca di persone da sequestrare, per rubare loro gli organi.… Stregoni al soldo del…


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“ Come potremmo mai non condividere le sofferenze mortali subite dall'Ucraina in epoca sovietica? Ma da dove scaturisce l'intento di asportare l'Ucraina da un corpo vivo (ed anche quella che da tempi remoti, nel corso dei secoli, non è stata mai Ucraina, come il Dikoe Pole —«Terra selvaggia» — dei nomadi, o la Crimea, il Donbass, fin quasi ad arrivare al Mar Caspio)? E se «autodeterminazione delle nazioni» ha da essere, allora che davvero ogni nazione decida le proprie sorti. E questo non si risolve prescindendo da una votazione popolare.
Staccare oggi l'Ucraina significa passare attraverso milioni di famiglie e di persone: quanta commistione di popolazioni; intere regioni e città a predominanza russa: quante persone imbarazzate a scegliere tra le due nazionalità; quanti di sangue misto; quanti matrimoni misti, che peraltro fino ad oggi nessuno considerava «misti». Nel fulcro della popolazione radicata non c'è ombra di intolleranza tra ucraini e russi.
Fratelli! Non ci serve questa crudele separazione! Sarebbe il frutto dell'ottundimento degli anni comunisti. Insieme abbiamo sofferto l'epoca sovietica, insieme siamo precipitati in questo baratro, e insieme ne usciremo.
E in due secoli: quale folla di nomi illustri all'incrocio delle nostre due culture. Nella formula di M.P. Dragomanov: «Indivisibili, ma neppure confondibili». Occorre aprire in spirito di amicizia e disponibilità la strada alla cultura ucraina e bielorussa non solo sui territori dell'Ucraina e Bielorussia, ma anche della Grande Russia. Nessuna russificazione forzosa (e peraltro nessuna ucrainizzazione forzosa, quale si ebbe verso la fine degli anni Venti), ma libero sviluppo parallelo di ambedue le culture, e classi scolastiche con l'insegnamento nelle due lingue, a scelta dei genitori.
Certo, se il popolo ucraino desiderasse effettivamente separarsi, nessuno potrebbe impedirglielo con la forza.
Il nostro spazio è multiforme, e solo la popolazione localepuò decidere le sorti della propria località, della propria regione, mentre ogni nuova minoranza recentemente formatasi in questa località deve contare sulla medesima non coercizione. “

Aleksandr SolženicynCome ricostruire la nostra Russia? - Considerazioni possibili, traduzione di Dario Staffa, Rizzoli, ottobre 1990¹; pp. 21-23. (Corsivi dell’autore)

[ 1ª Edizione originale: Как нам обустро́ить Росси́ю? - посильные соображения, Volgogradskaya Pravda, 21 settembre 1990 ]

“ La filosofia cui si ispira la concezione della «casa comune europea» esclude ogni conflitto armato, la stessa possibilità dell'impiego della forza o della minaccia della forza, innanzi tutto militare. Al posto della dottrina della deterrenza, essa propone la dottrina della moderazione. E non si tratta di sfumature di concetti, ma di una logica dettata dalla stessa realtà dello sviluppo europeo.
I nostri obiettivi ai negoziati di Vienna sono noti. Noi riteniamo pienamente realizzabile — e anche il Presidente Usa è dello stesso avviso — l'abbassamento sostanziale, nell'arco di 2-3 anni, del tetto degli armamenti in Europa, naturalmente eliminando tutte le asimmetrie e gli squilibri. Sottolineo tuttele asimmetrie e gli squilibri. Non sono ammissibili due diversi metri di misura. Siamo convinti che sia tempo di avviare anche i negoziati sui mezzi nucleari tattici tra tutti i paesi interessati. L'obiettivo finale è la completa eliminazione di quest'arma. Essa minaccia gli europei, che non hanno alcuna intenzione di farsi la guerra l'uno contro l'altro. Allora a cosa e a chi serve?
Liquidare gli arsenali nucleari oppure conservarli a qualsiasi costo? La strategia della deterrenza nucleare rafforza o mina la stabilità? Su questi problemi le posizioni della Nato e del Trattato di Varsavia appaiono diametralmente opposte. Ma noi non drammatizziamo le divergenze. Noi cerchiamo soluzioni e invitiamo i nostri partner a fare altrettanto. Infatti consideriamo la liquidazione dell'arma nucleare come un processo graduale. E parte della distanza che ci separa dalla completa eliminazione dell'arma nucleare gli europei possono percorrerla insieme, senza rinunciare alle propri posizioni: l'Urss, restando fedele ai propri ideali non nucleari, l'Occidente alla concezione della «deterrenza minima».
Tuttavia occorre comprendere cosa s'intende per «minima», e dov'è il limite, varcato il quale il potenziale di ritorsione nucleare si trasforma in potenziale offensivo. Ci sono molti punti oscuri, e la reticenza è fonte di sfiducia.
Allora perché gli esperti di Urss, Usa, Gran Bretagna e Francia, nonché degli Stati nei cui territori è dislocata l'arma nucleare, non discutono approfonditamente questi problemi? Se essi arrivassero a una qualche valutazione comune, il problema si semplificherebbe anche a livello politico.
Se i paesi della Nato dimostreranno la propria disponibilità a negoziare con noi sugli armamenti nucleari tattici, potremo — consultandoci, naturalmente, con i nostri alleati — avviare senza indugi un'ulteriore riduzione unilaterale dei nostri missili nucleari tattici di stanza in Europa. “

———

Brano tratto dal discorso dell’ultimo segretario del Pcus all’assemblea del Consiglio d’Europa riunita a Strasburgo il 6 luglio 1989; il testo (intitolato Appello all’Europa: dall’Atlantico agli Urali) è in:

Mikhail GorbaciovLa casa comune europea, A. Mondadori (collana Frecce; traduzione in italiano a cura dell’editore sovietico), 1989¹; pp. 216-217.

[Prima edizione: Агентство печати «Новости» (АПН), Mosca, 1989]

“ Pavel lascia i manoscritti di Babel’ sul pavimento accanto al tavolino. Si volta per uscire.
«Aspetti» dice perentorio Rodos, sollevando una mano su cui luccica una grossa fede nuziale. Il graffiare lento e intenzionale della penna riempie la stanza. La luce che entra dalla finestra batte sulla testa dell'ufficiale, cosicché Pavel ne vede il cranio pallido attraverso i capelli neri, unti, dove il pettine ha scavato una serie di piccoli solchi. Dall'appendiabiti nell'angolo penzolano una pistola nella sua fondina, la Tokarev TT d'ordinanza, e il berretto blu dell'uniforme di Rodos. Dopo un minuto buono, la mano si abbassa. «Lei sarebbe…?»
«Pavel Dubrov.»
«Dubrov. Come mai non l'ho mai vista in giro?»
«Lavoro ai piani bassi. Negli archivi speciali della Quarta Sezione.»
«E cosa fa?»
Rimetto in ordine dopo che siete passati voi, pensa Pavel. «Sono l'archivista.»
«Giusto. Il nostro bibliotecario. Allora.» Rodos si raddrizza sulla sedia. «Archivista. Che cosa c'è nella scatola?»
«I manoscritti di Isaak Babel'»
La debolezza è salita fin nella gola di Pavel. Guarda fuori dalla finestra. La luce del sole avanza nel cortile, le saracinesche di ferro nero della prigione si abbassano. Rodos, alzatosi dalla sedia, dà un colpetto con la punta dello stivale, lucidissimo, alla scatola di cartone portata da Pavel.
«Il nostro bravo scribacchino. Basta una sua lettera e siamo rovinati.»
«Pensavo» dice Pavel «che l'indagine fosse conclusa.»
«Lo sarà presto.» Rodos torna alla scrivania. «Ecco.» Prende un foglio da una cartelletta aperta, lo porge a Pavel. Una copia carbone, battuta a macchina. La lettera di Babel’ a Berija.
Cittadino commissario del popolo, nel corso dell'istruttoria ho raccontato i miei crimini senza risparmiarmi, mosso soltanto dal desiderio di purificazione e di espiazione. Voglio rendere conto di un altro aspetto della mia esistenza, del mio lavoro letterario, che ho proseguito in solitudine, tormentosamente, a strappi, ma che non ho mai abbandonato. Io le chiedo, cittadino commissario del popolo, di permettermi di riordinare i manoscritti che mi sono stati sottratti.
«Cosa pensa che abbia in mente?» chiede Rodos.
La stessa cosa che ho in mente io, pensa Pavel, restituendo la lettera. Babel’ sta cercando di salvarsi nell'unico modo ormai possibile: mettendo in salvo i suoi racconti. Pavel ha le punte delle dita annerite per aver toccato la copia carbone.
«Non lo so.»
«Una cosa è certa» dice Rodos. «Il nostro maledetto scribacchino è completamente rincretinito e crede che il suo trucco funzionerà. Può scrivere tutte le lettere che vuole, alla fine non servirà a niente.» Agita la lettera di Babel’ in direzione della pistola sull'appendiabiti. «Ha mai visto un foglio di carta fermare una di quelle?»
Anche da dove si trova Pavel riesce a sentire l'odore di olio che emana dai capelli dell'ufficiale.
«No» risponde.
«Nemmeno io. “

Travis Holland,Storia di un archivista, traduzione di Elisa Banfi, Guanda (collana Narratori della Fenice), 2008; pp. 182-184.

[ Edizione originale: The Archivist’s Tale, The Dial Press, New York City, USA, 2007 ]

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