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“ Ponendo l’interrogativo della durata possibile del regime è interessante tracciare alcuni paralleli storici. Alcune delle condizioni che hanno provocato la prima e la seconda rivoluzione russa esistono forse anche oggi: gruppi di caste inamovibili; sclerosi di un sistema statale entrato nettamente in conflitto con le esigenze dello sviluppo economico; burocratizzazione del sistema e, quindi, creazione di una classe privilegiata; contraddizioni nazionali in seno ad uno Stato plurinazionale e situazione privilegiata di alcune nazioni. Eppure, se il regime zarista si fosse protratto più a lungo, avrebbe forse resistito ad una pacifica modernizzazione, a patto che il gruppo dirigente non avesse valutato fantasticamente la situazione generale e le proprie forze e non avesse svolto all’esterno una politica espansionista che provocò un eccesso di tensione. In effetti, se il governo di Nicola II non avesse iniziato la guerra contro il Giappone, non avremmo avuto la rivoluzione del 1905-1907 e, se non fosse stata dichiarata la guerra alla Germania, la rivoluzione del 1917 non sarebbe scoppiata*.
Perché qualsiasi indebolimento interno va sempre di pari passo con eccessive ambizioni di politica estera? Non so rispondere. Forse si cerca nelle crisi esterne uno sfogo delle contraddizioni interne. Forse, al contrario, la facilità con la quale viene soffocata qualsiasi opposizione interna crea l’illusione di una potenza illimitata. Forse l’esigenza di avere un nemico al di fuori, nutrita dagli obbiettivi di politica interna, crea una tale inerzia, che è impossibile fermarsi, tanto più che tutti i regimi totalitari si logorano fino all’estinzione senza accorgersene. Perché Nicola I ebbe bisogno della guerra di Crimea che mandò in rovina il regime da lui costituito? Perché Nicola II ebbe bisogno della guerra contro il Giappone e contro la Germania? Il regime di oggi compendia in sé in modo curioso aspetti dei regni di Nicola I e di Nicola II ed in politica interna, direi anche di quello di Alessandro III. Ma è ancora meglio paragonarlo al regime bonapartista di Napoleone III. Se questo paragone è valido, il Medio Oriente sarà il suo Messico, la Cecoslovacchia i suoi Stati Pontifìci e la Cina il suo Impero Germanico. “

*Rigorosamente parlando, non è lui che ha cominciato queste due guerre, ma ha fatto di tutto perché scoppiassero.

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Andrej Amalrik,Sopravviverà l'Unione Sovietica fino al 1984?, introduzione di Carlo Bo, traduzione dal russo di Caterina Darin, Coines edizioni spa, Roma, 1970¹; pp. 57-59.

[1ª Edizione originale: Просуществует ли Советский Союз до 1984 года?, Alexander Herzen Foundation, Amsterdam, 1970]

“ Come potremmo mai non condividere le sofferenze mortali subite dall'Ucraina in epoca sovietica? Ma da dove scaturisce l'intento di asportare l'Ucraina da un corpo vivo (ed anche quella che da tempi remoti, nel corso dei secoli, non è stata mai Ucraina, come il Dikoe Pole —«Terra selvaggia» — dei nomadi, o la Crimea, il Donbass, fin quasi ad arrivare al Mar Caspio)? E se «autodeterminazione delle nazioni» ha da essere, allora che davvero ogni nazione decida le proprie sorti. E questo non si risolve prescindendo da una votazione popolare.
Staccare oggi l'Ucraina significa passare attraverso milioni di famiglie e di persone: quanta commistione di popolazioni; intere regioni e città a predominanza russa: quante persone imbarazzate a scegliere tra le due nazionalità; quanti di sangue misto; quanti matrimoni misti, che peraltro fino ad oggi nessuno considerava «misti». Nel fulcro della popolazione radicata non c'è ombra di intolleranza tra ucraini e russi.
Fratelli! Non ci serve questa crudele separazione! Sarebbe il frutto dell'ottundimento degli anni comunisti. Insieme abbiamo sofferto l'epoca sovietica, insieme siamo precipitati in questo baratro, e insieme ne usciremo.
E in due secoli: quale folla di nomi illustri all'incrocio delle nostre due culture. Nella formula di M.P. Dragomanov: «Indivisibili, ma neppure confondibili». Occorre aprire in spirito di amicizia e disponibilità la strada alla cultura ucraina e bielorussa non solo sui territori dell'Ucraina e Bielorussia, ma anche della Grande Russia. Nessuna russificazione forzosa (e peraltro nessuna ucrainizzazione forzosa, quale si ebbe verso la fine degli anni Venti), ma libero sviluppo parallelo di ambedue le culture, e classi scolastiche con l'insegnamento nelle due lingue, a scelta dei genitori.
Certo, se il popolo ucraino desiderasse effettivamente separarsi, nessuno potrebbe impedirglielo con la forza.
Il nostro spazio è multiforme, e solo la popolazione localepuò decidere le sorti della propria località, della propria regione, mentre ogni nuova minoranza recentemente formatasi in questa località deve contare sulla medesima non coercizione. “

Aleksandr SolženicynCome ricostruire la nostra Russia? - Considerazioni possibili, traduzione di Dario Staffa, Rizzoli, ottobre 1990¹; pp. 21-23. (Corsivi dell’autore)

[ 1ª Edizione originale: Как нам обустро́ить Росси́ю? - посильные соображения, Volgogradskaya Pravda, 21 settembre 1990 ]

daModena antifascista


L’autore del manifesto politico dietro la strage di Christchurch non è un folle,  è il figlio legittimo, integrato e coerente, del tempo in cui viviamo: il tempo della crisi.

Crisi – nel suo significato originario di trasformazione radicale – che non è solamente materiale, ovvero di decadenza di un intero ciclo di egemonia ed accumulazione capitalistica, ma anche politica e sociale, che sconquassa le categorie e i rapporti su cui si sono retti patti e conflitti, e che sconvolge aspetti culturali, antropologici, esistenziali – collettivi e individuali – che si erano dati lungo tutto un arco storico.  

Brenton Tarrant, come del resto qualsiasi jihadista cresciuto nelle metropoli d’Europa, parla la nostra lingua. Ha 28 anni, è cresciuto con internet e la sua cultura, dentro l’atomizzazione della forma di vita neoliberista, giusto in tempo per assistere alla decomposizione dell’ordine liberale. Depressione e disperazione, meme e cinica postironia nichilista, disintermediazione politico-culturale e catastrofe ecologica planetaria. Un senso della fine che, dentro un eterno presente senza storia e senza futuro, si compenetra con la fine del senso, sprigionando energia distruttiva. Che non trova niente a incanalarla verso fini progressivi. E per questo va a scorrere, inevitabilmente spinta dalla forza di gravità, sui solchi già tracciati nel terreno.

Come Anders Breivik e Luca Traini prima di lui, Brenton Tarrant infatti ha semplicemente cristallizzato in atto ciò che è quotidianamente diffuso a livello liquido e gassoso nelle nostre società, non solo occidentali. Ciò che respiriamo ogni giorno. Ciò che è stato sciolto nei pozzi da cui ci abbeveriamo.
Il manifesto che ha mosso i fucili mitragliatori degli stragisti sulla folla inerme in preghiera si intitola, paradigmaticamente, “The Great Replacement”: La Grande Sostituzione.
Parole, concetti diventati moneta comune in occidente, che ritornano. Ma che hanno un origine precisa. La sostituzione etnica, il genocidio – culturale e biologico – della razza bianca, la grande paranoia contemporanea dell’uomo occidentale: dal grezzo cospirazionsimo suprematista a fine teoria della Nouvelle Droite (dice niente il best seller di Renaud Camus “Le Grand Remplacement”?), dalla marginalità degli ambienti neonazisti a strumento di campagna elettorale del governo. In Italia, dalla copertina del Primato Nazionale alla tv in prima serata, fino al Ministero dell’Interno.

Brenton Tarrant, che si è filmato mentre uccideva cinquanta persone disarmate, si definisce un fascista. Lo è. Ma le sue parole sembrano appena uscite dal telegiornale della cena. Da un qualsiasi talk show televisivo in prima serata. Dall’intervista alla radio di qualche rappresentante delle istituzioni, magari “oltre la destra e la sinistra”. Dal tweet di qualche politico che si dichiara contro i poteri forti ma di buon senso, populista ma non razzista, Dalla Vostra Parte ma prima gli italiani bianchi. L’omogeneità etnica e l’organicità nazionale come valori in sé. L’immigrazione come un complotto contro gli autoctoni. L’uomo bianco sotto attacco, devirilizzato, sterilizzato, come vittima. La decadenza dell’occidente, l’invasione islamica, il razzismo differenzialista. L’etnonazionalismo mascherato da identitarismo, la guerra civile-razziale. Tutto ciò è perfettamente compatibile con la democrazia liberale.
La tragedia non è soltanto l’orrenda strage, ma la legittimità sociale, il senso comune, l’integrazione culturale e la nobiltà politica che sono state conferite agli assiomi che l’hanno portata a compimento.

Il passaggio dalla metapolitica, ovvero dalla costruzione di egemonia culturale, alla lotta armata di lupi sempre meno solitari e sempre più organizzati, sul modello di Daesh, alla guerra civile. Dentro questo ampio spettro, la strage di Christchurch porta allo scoperto, attraverso la loro coerente estremizzazione e come un presagio, le matrici di processi di lungo periodo in atto già da tempo nelle nostre società, dentro cui specifiche forze stanno operando per determinarne una possibile direzione e un tendenziale sbocco.
Dentro questo spettro si rimodula il potere sovrano, se esso è colui che decide sullo stato di eccezione.

Dentro a tutto ciò, a partire da tutto ciò, le categorie che abbiamo utilizzato fino ad ora paiono inermi, non più efficaci, limitate a comprenderne la portata. Le bussole antropologico-politiche di un intero arco di civilizzazione si stanno riorientando: vediamo il movimento, non riusciamo a coglierne appieno la direzione d’approdo.

Dentro a tutto ciò, di fronte a tutto ciò, il senso di quello che chiamiamo un antifascismo per il XXI secolo è tutto da ricercare, costruire, sviluppare, necessariamente, crediamo, travalicando i limiti dell’antifascismo stesso.

Questa la porta stretta entro cui, necessariamente, passare.

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