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“ In quei giorni, il dottore vide Pamfíl Palých con la famiglia. Sua moglie e i bambini avevano trascorso tutta l’estate fuggendo sulle strade polverose, sotto il cielo aperto. Erano terrorizzati dagli orrori vissuti e ne aspettavano altri. La moglie e i tre figli, un maschietto e due bambine, avevano i capelli bianchi, color lino, bruciati dal sole, e bianchi severi sopraccigli sui visi abbronzati e riarsi dal vento. I bambini erano ancora troppo piccoli per recare altri segni di quanto avevano sofferto, ma dal volto della madre, traumi psichici e pericoli avevano cancellato ogni traccia di vitalità, lasciando solo l’arida regolarità dei lineamenti, le labbra strette e sottili, come un filo, la tesa immobilità della sofferenza pronta solo a difendersi.
Pamfíl li amava immensamente, specie i bambini, e con una punta dell’ascia ben affilata intagliava per loro giocattoli di legno, leprotti, orsacchiotti e galletti, con una maestria che stupiva il dottore.
Quando erano arrivati, Pamfíl era diventato allegro, si era ripreso e aveva cominciato a rimettersi. Ma presto si seppe che, a causa della nociva influenza che le famiglie esercitavano sul morale degli uomini, i partigiani sarebbero stati divisi dai loro cari, il campo liberato da quell’inutile peso e il convoglio delle donne avrebbe dovuto accamparsi, sotto una sufficiente scorta armata, a una certa distanza, per passarvi l’inverno. Erano certamente più le voci che correvano in proposito che non le disposizioni concrete. Il dottore non credeva che la misura potesse essere attuata. Ma Pamfíl si incupì e le allucinazioni ricominciarono. “

Borís Pasternàk,Il dottor Živago, Einaudi (collana Nuovi Universali; traduzione di Pietro Zveteremich, riveduta da Mario Socrate e Maria Olsoufieva; prefazione di Eugenio Montale), 1964; pp. 416-417.

[Prima edizione mondiale: Giangiacomo Feltrinelli Editore, collana «I Narratori», 15 novembre 1957]

daModena antifascista


L’autore del manifesto politico dietro la strage di Christchurch non è un folle,  è il figlio legittimo, integrato e coerente, del tempo in cui viviamo: il tempo della crisi.

Crisi – nel suo significato originario di trasformazione radicale – che non è solamente materiale, ovvero di decadenza di un intero ciclo di egemonia ed accumulazione capitalistica, ma anche politica e sociale, che sconquassa le categorie e i rapporti su cui si sono retti patti e conflitti, e che sconvolge aspetti culturali, antropologici, esistenziali – collettivi e individuali – che si erano dati lungo tutto un arco storico.  

Brenton Tarrant, come del resto qualsiasi jihadista cresciuto nelle metropoli d’Europa, parla la nostra lingua. Ha 28 anni, è cresciuto con internet e la sua cultura, dentro l’atomizzazione della forma di vita neoliberista, giusto in tempo per assistere alla decomposizione dell’ordine liberale. Depressione e disperazione, meme e cinica postironia nichilista, disintermediazione politico-culturale e catastrofe ecologica planetaria. Un senso della fine che, dentro un eterno presente senza storia e senza futuro, si compenetra con la fine del senso, sprigionando energia distruttiva. Che non trova niente a incanalarla verso fini progressivi. E per questo va a scorrere, inevitabilmente spinta dalla forza di gravità, sui solchi già tracciati nel terreno.

Come Anders Breivik e Luca Traini prima di lui, Brenton Tarrant infatti ha semplicemente cristallizzato in atto ciò che è quotidianamente diffuso a livello liquido e gassoso nelle nostre società, non solo occidentali. Ciò che respiriamo ogni giorno. Ciò che è stato sciolto nei pozzi da cui ci abbeveriamo.
Il manifesto che ha mosso i fucili mitragliatori degli stragisti sulla folla inerme in preghiera si intitola, paradigmaticamente, “The Great Replacement”: La Grande Sostituzione.
Parole, concetti diventati moneta comune in occidente, che ritornano. Ma che hanno un origine precisa. La sostituzione etnica, il genocidio – culturale e biologico – della razza bianca, la grande paranoia contemporanea dell’uomo occidentale: dal grezzo cospirazionsimo suprematista a fine teoria della Nouvelle Droite (dice niente il best seller di Renaud Camus “Le Grand Remplacement”?), dalla marginalità degli ambienti neonazisti a strumento di campagna elettorale del governo. In Italia, dalla copertina del Primato Nazionale alla tv in prima serata, fino al Ministero dell’Interno.

Brenton Tarrant, che si è filmato mentre uccideva cinquanta persone disarmate, si definisce un fascista. Lo è. Ma le sue parole sembrano appena uscite dal telegiornale della cena. Da un qualsiasi talk show televisivo in prima serata. Dall’intervista alla radio di qualche rappresentante delle istituzioni, magari “oltre la destra e la sinistra”. Dal tweet di qualche politico che si dichiara contro i poteri forti ma di buon senso, populista ma non razzista, Dalla Vostra Parte ma prima gli italiani bianchi. L’omogeneità etnica e l’organicità nazionale come valori in sé. L’immigrazione come un complotto contro gli autoctoni. L’uomo bianco sotto attacco, devirilizzato, sterilizzato, come vittima. La decadenza dell’occidente, l’invasione islamica, il razzismo differenzialista. L’etnonazionalismo mascherato da identitarismo, la guerra civile-razziale. Tutto ciò è perfettamente compatibile con la democrazia liberale.
La tragedia non è soltanto l’orrenda strage, ma la legittimità sociale, il senso comune, l’integrazione culturale e la nobiltà politica che sono state conferite agli assiomi che l’hanno portata a compimento.

Il passaggio dalla metapolitica, ovvero dalla costruzione di egemonia culturale, alla lotta armata di lupi sempre meno solitari e sempre più organizzati, sul modello di Daesh, alla guerra civile. Dentro questo ampio spettro, la strage di Christchurch porta allo scoperto, attraverso la loro coerente estremizzazione e come un presagio, le matrici di processi di lungo periodo in atto già da tempo nelle nostre società, dentro cui specifiche forze stanno operando per determinarne una possibile direzione e un tendenziale sbocco.
Dentro questo spettro si rimodula il potere sovrano, se esso è colui che decide sullo stato di eccezione.

Dentro a tutto ciò, a partire da tutto ciò, le categorie che abbiamo utilizzato fino ad ora paiono inermi, non più efficaci, limitate a comprenderne la portata. Le bussole antropologico-politiche di un intero arco di civilizzazione si stanno riorientando: vediamo il movimento, non riusciamo a coglierne appieno la direzione d’approdo.

Dentro a tutto ciò, di fronte a tutto ciò, il senso di quello che chiamiamo un antifascismo per il XXI secolo è tutto da ricercare, costruire, sviluppare, necessariamente, crediamo, travalicando i limiti dell’antifascismo stesso.

Questa la porta stretta entro cui, necessariamente, passare.

ACCADDE OGGI

Il 17 marzo del 45 a.C. ci fu la battaglia presso le pianure di Munda, l'ultimo scontro di rilievo della guerra civile in Iberia e che vide contrapposti sul campo di battaglia Giulio Cesare contro Gneo Pompeo e Tito Labieno, suo ex legato in Gallia.

Il resoconto della battaglia ci viene fornito in modo dettagliato da Cassio Dione e dal Bellum Hispaniense (un'opera letteraria il cui autore, probabilmente un comandante di Cesare, è sconosciuto).

“L'ordine di battaglia constava di 13 aquile, che erano protette ai lati dalla cavalleria, con 6 mila uomini di fanteria leggera; si aggiungevano inoltre quasi altrettanti ausiliari. Le nostre forze consistevano in 80 coorti e 8 mila cavalieri” (Bell. Hisp., XXX, 1).

L'esercito di Pompeo era accampato su una piccola collina, posizione sfavorevole ad un eventuale attacco di Cesare: “Sebbene i nostri fossero superiori per valore, gli avversari si difendevano disperatamente sulla posizione superiore e c'era da entrambi i lati un forte rumore e un fitto tiro di proiettili, così che i nostri quasi disperavano della vittoria” (Ivi, XXXI, 1).

“Cesare e Pompeo, vedendo dai loro cavalli a dalle alture questo spettacolo, non sapevano se dovevano sperare o temere. Nel vedere la battaglia dall'esito incerto, saltarono giù dai loro cavalli e si gettarono nella mischia” (Cassio Dione, XLIII, 37, 3-4).

Vista la progressione di Cesare sull'ala destra del suo schieramento, Pompeo tolse una legione dal suo fianco destro per poter meglio fronteggiare l'avanzata di Cesare, commettendo un grave errore: infatti la cavalleria di Cesare attaccò in forze il lato destro di Pompeo, mentre la cavalleria del re di Mauretania Bogud, tenuta a riposo fino a quel momento, riuscì a portarsi sul retro dello schieramento del figlio di Pompeo Magno, creando totale scompiglio tra le fila dell'esercito avversario.

“[…] i soldati non poterono più ricostituire le proprie file, perciò fuggirono, dirigendosi verso la città, respingendo con vigore i nemici e non desistettero prima di essere circondati da ogni parte e la città fu conquistata solo dopo che tutti caddero nella varie sortite. Le perdite tra i soldati romani, tra i quali Labieno, furono da ambo le parti così elevate che i vincitori, non sapendo come sbarrare le uscite dalla città per impedire che di notte qualcuno fuggisse, ammucchiarono davanti ad esse i cadaveri dei nemici” (Ivi, XLIII, 38, 3-4).

La completa vittoria di Cesare e la pacificazione successiva della penisola Iberica segnarono l’eliminazione di ogni forza armata di opposizione ai progetti di Cesare, il quale tornò a Roma divenendo dictator.


(I passi sono tratti da: Cassio Dione, Storia Romana (a cura di Giuseppe Norcio), BUR, Milano 1995; Pseudo-Cesare, La lunga guerra civile (a cura di Luigi Loreto), BUR, Milano 2009).

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