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Il 19 febbraio del 197 d.C. Settimio Severo sconfiggeva il rivale Clodio Albino nella battaglia di Lugdunum, odierna Lione.

Stando ai resoconti degli storici antichi, ed in particolare di Cassio Dione, le due armate che si scontrarono erano composte da 150.000 soldati complessivi, con Clodio Albino che poteva disporre di circa 60.000 legionari e Settimio Severo che contava quindi su circa 90.000 uomini, in massima parte provenienti dal limes renano e danubiano.

“Da entrambe le parti c'erano centocinquantamila soldati ed erano presenti allo scontro ambedue i comandanti. Albino era superiore per nobiltà e per la formazione ricevuta, mentre il suo rivale prevaleva nella scienza militare e nell'arte di condurre un esercito” (Cassio Dione, Storia Romana, LXXVI, 6).


La battaglia ebbe inizio con una mossa a sorpresa di Severo che avanzò con l'ala destra per poi ripiegare, inseguito dalla cavalleria sarmata di Albino, attirandola in un'imboscata e distruggendola completamente. Dopo questo primo successo il sovrano guidò l'avanzata dell'ala sinistra, ma l'attacco non ebbe esito positivo.


Dopo due giorni di combattimenti incerti Giulio Leto, il comandante della cavalleria severiana, attaccò i fianchi delle legioni avversarie, sfondandone le linee. Sentendosi perduto, Clodio Albino preferì correre al proprio accampamento, per poi suicidarsi.

“Durante un combattimento in cui molti soldati di Clodio erano caduti, molti si erano dati alla fuga ed altri arresi, egli fuggì e poi, secondo alcuni, cercò di uccidersi con le proprie mani o, secondo altri, si fece trafiggere da un servo” (Historia Augusta, Vita di Clodio Albino, IX).


(Nell'immagine: rappresentazione contemporanea di Settimio Severo durante la battaglia di Lugdunum, tratta da Ancient Warfare Magazine)


(Il passo di Cassio Dione è tratto da: Cassio Dione, Storia Romana volume IX, (a cura di Alessandro Galimberti), BUR, Milano 2018.

Il passo dell'Historia Augusta è tratto da: Scrittori dell'Historia Augusta, (a cura di Leopoldo Agnes), UTET, Torino 1960).

VOCI DI ROMA

LA ROMA AUGUSTEA

“Realizzò numerosi monumenti pubblici. Tra questi ecco i principali: un foro con un tempio di Marte Vendicatore, un tempio di Apollo sul Palatino, un altro di Giove Tonante sul Campidoglio. Costruì un Foro perchè, data l'affluenza della folla e il numero dei processi, i due esistenti non erano più sufficienti e sembra ci fosse bisogno di un terzo; per questo ci si affrettò ad inaugurarlo, senza che fosse terminato il tempio di Marte e si stabilì che in esso fossero tenuti specialmente i processi pubblici e si facesse l'estrazione a sorte dei giudici.

Quanto al tempio di Marte aveva fatto voto di innalzarlo quando, con la battaglia di Filippi, si era vendicato dell'uccisione di Cesare; così stabilì che il Senato deliberasse in questo tempio tutto quanto si riferiva alle guerre e ai trionfi, che di qui partissero tutti coloro che si recevano nelle province con incarichi di comando e che quanti tornavano vincitori qui portassero le insegne dei loro trionfi.

Fece erigere il tempio di Apollo in quella parte della sua casa sul Palatino che, colpita dal fulmine, il dio aveva preteso per sè a mezzo degli aruspici; vi aggiunse un porticato con una biblioteca latina e greca, e qui, già vecchio ormai, riunì spesso il Senato e passò in rivista le decurie dei giudici”.


✍️Svetonio, Vite dei Cesari, Vita di Augusto, 29 (a cura di S. Lanciotti), Rizzoli, Milano 1982.

(Nell'immagine: ricostruzione grafica del Foro di Augusto)

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Il 12 febbraio del 41 d.C. nasceva a Roma Tiberio Claudio Cesare Germanico, meglio noto con il nome di Britannico, secondo figlio che l'imperatore Claudio ebbe dalla terza moglie Messalina.

Risulta molto difficile ricostruire la biografia di Britannico, a causa della carenza documentaria. La sua nascita è ricordata brevemente da Svetonio:

Ebbe dei figli tre delle sue mogli: da Urgulanilla, Druso e Claudia; da Petina Antonia; da Messalina Ottavia e un figlio al quale diede dapprima il nome di Germanico e poi quello di Britannico" (Svetonio, Vite dei Cesari, Claudio, 27).

Il bambino prese questo appellativo poichè due anni dopo la sua nascita, nel 43 d.C. fu conquistata la Britannia e il Senato offrì a Claudio il titolo onorifico “Britannico”; l'imperatore rifiutò di adottarlo ma lo concesse al figlio.

Il sovrano fu molto legato al nuovo figlio, come testimonia lo stesso Svetonio: “In quanto a Britannio, che era nato nel ventesimo giorno del suo principato, durante il suo secondo consolato, lo raccomandò sempre, fin da bambino, ai soldati, presentandolo a loro, riuniti a parlamento, tenuto nel cavo delle mani. E lo raccomandava anche al popolo, mettendoselo sulle ginocchia, o seduto davanti a lui durante gli spettacoli; e faceva continuamente i più fervidi voti per quel bambino, tra le acclamazioni della folla” (Svetonio, Ivi).


(Nell'immagine: stutua di Britannico da bambino, conservata nel Museo del Louvre a Parigi)


(I passi di Svetonio sono tratti da: Gaio Svetonio Tranquillo, I dodici Cesari, (A cura di Felice Dessì), BUR, Milano 1968).

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Il 20 gennaio del 225 nasceva a Roma Marco Antonio Gordiano Pio, meglio conosciuto con il nome di Gordiano III, che fu imperatore tra il 238 ed il 244 d.C.


Poche sono le fonti letterarie che riportano qualche dettaglio sulla biografia di questo sovrano e la più dettagliata (ma anche problematica) è la Vita dei Tre Gordiani, facente parte dell'Historia Augusta.


“Dopo la morte dei Gordiani il Senato romano, temendo vivamente la vendetta di Massimino, nominò Augusti Pupieno o Massimo e Clodio Balbino, ambedue consoli […] Contemporaneamente il popolo e l'esercito vollero che si desse il titolo di Cesare al giovane Gordiano, che aveva undici anni o tredici o al massimo sedici [In realtà la storiografia moderna ha appurato che il giovane aveva 14 anni]; lo portarono alla presenza del Senato, poi alla pubblica assemblea, lo rivestirono degli abiti imperiali e lo proclamarono Cesare.


Costui, secondo l'opinione comune sarebbe nato da una figlia di Gordiano il vecchio [versione confermata dagli storici odierni], mentre alcuni storici lo vogliono figlio del Gordiano secondo, morto in Africa. Nominato Cesare, continuò la sua eduzione presso la madre finchè, morti i Massimini e caduti Massimo e Balbino dopo due anni di impero durante una rivolta, ancor giovinetto fu proclamato Augusto [nel 238 d.C.]”. (Historia Augusta, Vita dei tre Gordiani, XXII)


(Nell'immagine: busto di Gordiano III coservato nel Museo Nazionale Romano di Palazzo Massimo a Roma)


(I passi dell'Historia Augusta sono tratti da: Scrittori della Storia Augusta, (a cura di Leopoldo Agnes), UTET, Torino 1960)

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Il 16 gennaio del 27 a.C., Gaio Giulio Cesare Ottaviano, ottiene dal senato il titolo di Augusto.

La notizia, raccontataci da Svetonio, si inserisce nel capitolo in cui l’autore sta descrivendo la giovinezza del futuro princeps ed è giusto riportare il passo integralmente, per mostrare un’altra curiosità poco nota su Ottaviano: il soprannome che ricevette da bambino.

“Da fanciullo gli avevano dato il soprannome di Turino, vuoi per ricordare la sua origine, vuoi perché nel territorio di Turi il padre Ottavio, poco tempo dopo la sua nascita, aveva sconfitto gli schiavi fuggitivi. Ho potuto constatare con certezza che Augusto venne chiamato Turino, perché ho posseduto una vecchia effige di bronzo che lo rappresenta fanciullo, con sopra scritto a lettere di ferro quasi cancellate, tale soprannome; ho regalato questa effige al nostro principe [ndr. l’imperatore Adriano], che la venera tra i suoi dei domestici. Anche Marco Antonio, per ingiuriarlo, nelle sue lettere lo chiama spesso Turino, e Augusto meravigliandosi si accontenta di rispondere: “Non vedo perché debba considerare un insulto il mio primo nome”.

In seguito assunse il cognome di Gaio Cesare e poi quello di Augusto. Il primo, in base al testamento del prozio, l’altro perché, mentre alcuni senatori erano del parere di attribuirgli quello di Romolo, quasi fosse stato il secondo fondatore di Roma, prevalse la proposta di Munazio Planco di chiamarlo invece Augusto, non tanto per attribuirgli un nome che non era mai stato usato prima, quanto per il significato onorifico di quella parola. Infatti si chiamano “Augusti” i luoghi consacrati dalla religione, sia che questa parola derivi da aucta [accrescimento], sia che derivi da avium gestu o da gustu [parole usate per indicare i presagi che gli uccelli danno con il loro volo e il loro cibarsi], come ci ricorda questo verso di Ennio:

“Dopo che Roma fu eretta con inclito presagio Augusto”.

(Svetonio, Vite dei Cesari, Augusto, VII)


(Nell’immagine: Busto di Augusto conservato al Museo del Louvre di Parigi)


I passi sono tratti da: Svetonio, I dodici Cesari e gli uomini illustri, (a cura di Felice Dessì), BUR, Milano 1968).

VOCI DI ROMA

L'EMPIO COSTANTINO

“Tutto il potere era nelle mani del solo Costantino, che non celava più la sua natura malvagia, ma si abbandonava a ogni sorta di licenza. Celebrava ancora le cerimonie tradizionali, non per ossequio, ma per interesse. Quando giunse a Roma, pieno di arroganza, pensò che bisognava dare prova di empietà cominciando dalla famiglia. Senza tenere in alcun conto le leggi naturali, ucciso infatti il figlio Crispo, sospettato di avere uan relazione con la matrigna Fausta. Poiché Elena, la madre di Costantino, era indignata per un simile gesto e riteneva insopportabile l'assassinio del giovane, Costantino, quasi per consolarla, cercò di rimediare al male commesso con un male più grande ancora. Infatti ordinò di riscaldare un bagno oltre la temperatura normale e, immersa Fausta, la tirò fuori quando ormai era cadavere. Consapevole di questi crimini si presentava ai sacerdoti chiedendo loro sacrifici espiatori per le proprie colpe, ma poiché essi rispondevano che nessuna purificazione era in grado di cancellare simili empietà, un egiziano, giunto a Roma dall'Iberia ed entrato in familiarità con le donne di corte, incontratosi con Costantino gli assicurò che la religione cristiana annullava qualsiasi colpa e conteneva in sé anche questa promessa, di liberare subito da ogni peccato gli empi che la praticavano. Costantino fu assai pronto ad accogliere le sue parole: trascurando i riti tradizionali e partecipando invece a quelli proposti dall'egiziano, cominciò a nutrire sospetti verso la divinazione. E quando venne il momento della festa tradizionale [i decennalia], nel corso della quale l'esercito doveva salire sul Campidoglio e celebrare i soliti riti, egli per paura dei soldati partecipò alla festa, ma l'egiziano gli mandò una visione che condannava senza riserve l'ascesa al Campidoglio e allora si tenne lontano dalla cerimonia sacra e si attirò l'odio del Senato e del popolo”.


✍️ Zosimo, II, 29, 1-5 (traduzione a cura di Fabrizio Conca), BUR, Milano 2007.

VOCI DI ROMA

LA BATTAGLIA DELLA SELVA ARSIA

“[…] Tarquinio, convinto che bisognava ricorrere alla guerra aperta, cominciò a girare per le città dell'Etruria implorando aiuto, rivolgendosi soprattutto ai Veienti e ai Tarquiniesi, pregandoli di non permettere che un compatriota, un consanguineo, ramingo, ridotto in miseria dopo aver posseduto un regno sì grande, perisse sotto i loro occhi coi suoi giovani figli.

[…] E così i due eserciti delle due città seguirono Tarquinio al fine di riconquistare il regno e di muovere guerra ai Romani. Giunti che furono all'agro romano, i consoli marciarono contro il nemico. Valerio guidava la fanteria disposta in quadrato; Bruto era andato innanzi in esplorazione con la cavalleria. Similmente in testa ai nemici avanzava la cavalleria; ne aveva il comando Arrunte Tarquinio, figlio del re; il re stesso seguiva con le schiere dei fanti. Quando Arrunte, grazie ai littori, ebbe individuato il console, riconoscendo Bruto, infiammato d'ira gridò: «Ecco l'uomo che ci ha banditi dalla patria. Eccolo che avanza tutto tronfio, fregiandosi delle nostre insegne. O dèi vendicatori dei re, assistetemi!». Spronato il cavallo si lanciò all'attacco proprio contro il console e Bruto s'accorse che l'attacco era diretto contro di lui; a quel tempo era un onore per i comandanti ingaggiare personalmente la battaglia; egli si espose quindi con ardore al combattimento e i due si affrontarono con tanta furia, l'uno e l'altro incuranti di coprire la propria persona pur di ferire il nemico, che, trafitti entrambi attraverso lo scudo dal colpo dell'avversario, stramazzarono morenti da cavallo rimanendo attaccati per le due aste.

Iniziò contemporaneamente da parte di tutti gli altri la battaglia equestre e poco dopo sopraggiunse anche la fanteria. Si combatté in quell'occasione con alterne vittorie e con quasi ugual successo; l'ala destra fu da entrambe le parti vittoriosa, la sinistra fu sconfitta. I Veienti, soliti ad essere battuti dai soldati romani, furono sbaragliati e messi in fuga; i Tarquiniesi, nemico nuovo, non soltanto resistettero, ma nel loro settore respinsero i Romani.

Dopo tale battaglia, sì grande terrore colse Tarquinio e gli Etruschi, che entrambi gli eserciti, il veiente e il tarquiniese, senza aspettare l'esito finale, di notte, si ritirarono ciascuno nella propria terra.

Nel silenzio della notte seguente una forte voce sarebbe risuonata dalla selva Arsia: fu creduta la voce di Silvano ed essa avrebbe detto questo: che nella battaglia gli Etruschi avevano avuto un morto in più, che la guerra era stata vinta dai Romani”.


✍️ Tito Livio, Storia di Roma, II, 6-7 (traduzione a cura di Mario Scandola), BUR 2013.


(Nell'immagine: lastra ritrovata vicino a Perugia in una tomba etrusca, raffigurante due cavalieri e un uomo caduto).

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Il 15 dicembre del 37 d.C. nacque Lucio Domizio Enobarbo, meglio conosciuto come Nerone Claudio Cesare Augusto Germanico, titolatura che adottò quando divenne Imperatore nel 54 d.C..

Gli scrittori antichi, come Svetonio o Tacito, ci hanno tramandato un'immagine molto negativa di questo imperatore, in parte riabilitato da studi più recenti, e ne è prova già la descrizione della sua nascita da parte di Svetonio, il quale, all'inizio del libro VI, scrive:

“Ritengo necessario rendere noti molti membri di questa famiglia [gli Enobarbi della gens Domizia], perché sia più evidente che Nerone fu assolutamente degenere rispetto alle virtù dei suoi antenati e tuttavia riprodusse i vizi di ciascuno di essi, quasi trasmessi a lui geneticamente”.

Svetonio risulta ancora più esplicito riguardo il suo giudizio su Nerone poco più avanti:

“Nerone nacque ad Anzio nove mesi dopo la morte di Tiberio, il 15 dicembre poco prima dell'alba, sì che quasi fu toccato dai raggi del sole prima che dalla terra stessa.

Mentre in molti traevano vari segni infausti dalla sua nascita, fu di presagio anche la frase del padre Domizio che, mentre gli amici si congratulavano con lui, aveva affermato che «da lui e da Agrippina non era potuto nascere che qualcosa di abominevole e di pernicioso per tutti».”


(I passi sono tratti da Svetonio, Nero., 1, 6, traduzione a cura di Francesco Casorati, Newton Compton, Roma 2010).


(Nell'immagine busto di Nerone, conservato presso i Musei Capitolini a Roma).

“Parcere subiectis et debellare superbos”.

Re sottomessi al potere di Roma, eppure spine nel fianco temibili nel momento del bisogno. Re amici del popolo romano con sogni di gloria. Regine potentissime ai confini dell'Impero.


ROMA E I REGNI CLIENTI: ARCHELAO E PITODORIDE


Articolo di Giuseppe Giordano

21 APRILE 753 a.C. - ROMAE DIES NATALIS

In questo giorno meraviglioso nacque Roma.

In principio una Città piena di timore.

I nemici la circondavano in ogni dove.

NULLA assicurava la sua sopravvivenza. Da questa Città, generazione dopo generazione, nacque una Civiltà che oggi vive attraverso noi.

Una tomba modesta di un Africano, ucciso nel 238 d. C., dice di più sul successo di Roma che un lungo discorso.

Vi si può leggere difatti: “Morì per amore di Roma”.

VOCI DI ROMA

CATONE E IL VINO DI MIRTO

“Così si fa il vino di mirto. Secca all'ombra le bacche di mirto nero. Dove siano già appassite, conservale per il tempo della vendemmia. Allora pesta mezzo moggio di queste bacche, mettile in un'urna di mosto e chiudila. Quando poi il mosto avrà finito di bollire, leverai via le bacche.

Questo vino giova a chi soffra di dolore alle costole, coliche ed indigestione”.

✍️ Catone, Liber de agri cultura, 125 (a cura di Francesco Ventura), Ventura Editore, Reggio Calabria 2012.

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Il 17 marzo del 45 a.C. ci fu la battaglia presso le pianure di Munda, l'ultimo scontro di rilievo della guerra civile in Iberia e che vide contrapposti sul campo di battaglia Giulio Cesare contro Gneo Pompeo e Tito Labieno, suo ex legato in Gallia.

Il resoconto della battaglia ci viene fornito in modo dettagliato da Cassio Dione e dal Bellum Hispaniense (un'opera letteraria il cui autore, probabilmente un comandante di Cesare, è sconosciuto).

“L'ordine di battaglia constava di 13 aquile, che erano protette ai lati dalla cavalleria, con 6 mila uomini di fanteria leggera; si aggiungevano inoltre quasi altrettanti ausiliari. Le nostre forze consistevano in 80 coorti e 8 mila cavalieri” (Bell. Hisp., XXX, 1).

L'esercito di Pompeo era accampato su una piccola collina, posizione sfavorevole ad un eventuale attacco di Cesare: “Sebbene i nostri fossero superiori per valore, gli avversari si difendevano disperatamente sulla posizione superiore e c'era da entrambi i lati un forte rumore e un fitto tiro di proiettili, così che i nostri quasi disperavano della vittoria” (Ivi, XXXI, 1).

“Cesare e Pompeo, vedendo dai loro cavalli a dalle alture questo spettacolo, non sapevano se dovevano sperare o temere. Nel vedere la battaglia dall'esito incerto, saltarono giù dai loro cavalli e si gettarono nella mischia” (Cassio Dione, XLIII, 37, 3-4).

Vista la progressione di Cesare sull'ala destra del suo schieramento, Pompeo tolse una legione dal suo fianco destro per poter meglio fronteggiare l'avanzata di Cesare, commettendo un grave errore: infatti la cavalleria di Cesare attaccò in forze il lato destro di Pompeo, mentre la cavalleria del re di Mauretania Bogud, tenuta a riposo fino a quel momento, riuscì a portarsi sul retro dello schieramento del figlio di Pompeo Magno, creando totale scompiglio tra le fila dell'esercito avversario.

“[…] i soldati non poterono più ricostituire le proprie file, perciò fuggirono, dirigendosi verso la città, respingendo con vigore i nemici e non desistettero prima di essere circondati da ogni parte e la città fu conquistata solo dopo che tutti caddero nella varie sortite. Le perdite tra i soldati romani, tra i quali Labieno, furono da ambo le parti così elevate che i vincitori, non sapendo come sbarrare le uscite dalla città per impedire che di notte qualcuno fuggisse, ammucchiarono davanti ad esse i cadaveri dei nemici” (Ivi, XLIII, 38, 3-4).

La completa vittoria di Cesare e la pacificazione successiva della penisola Iberica segnarono l’eliminazione di ogni forza armata di opposizione ai progetti di Cesare, il quale tornò a Roma divenendo dictator.


(I passi sono tratti da: Cassio Dione, Storia Romana (a cura di Giuseppe Norcio), BUR, Milano 1995; Pseudo-Cesare, La lunga guerra civile (a cura di Luigi Loreto), BUR, Milano 2009).

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Nella notte tra il 26 e il 27 agosto del 55 a.C., Gaio Giulio Cesare portava per la prima volta nella storia le armate romane in Britannia. Nel De bello Gallico il generale romano riferisce che l’invasione era dettata dal fatto che i Galli durante la loro resistenza contro i romani, ricevettero l’aiuto delle tribù britanniche e “se non gli fosse stata sufficiente la stagione propizia per una guerra, giudicava che gli sarebbe stato di grande utilità se anche solo fosse andato nell’isola e avesse avuto nozione di quei popoli e avesse conosciuto le località, i porti e gli approdi, cose quasi tutte ignote ai Galli […] Perciò, quantunque avesse convocati presso di sé da ogni parte i mercanti, non poté saper nulla né della grandezza dell’isola, né delle popolazioni che la abitavano, né della loro esperienza in guerra, né delle loro istituzioni e neppure se vi fossero porti adatti ad accogliere un grande numero di navi da guerra”. (De Bello Gallico, IV, 20).

Vista la difficoltà nel reperire informazioni decise di inviare in avanscoperta il tribuno Gaio Voluseno, con il compito di esplorare la costa. Intanto i mercanti riferiscono ai britanni le azioni romane e “ varie città dell’isola gli mandarono ambasciatori, promettendogli di dare ostaggi e e di obbedire agli ordini del popolo romano. Egli li ascoltò e con cortesi promesse li esortò a mantenersi in questa loro decisione, indi li mandò in patria e insieme con essi inviò anche Commio, che egli dopo la vittoria sugli Atrebati aveva creato re, uomo che egli apprezzava per il suo valore e per il suo senno”. (IV, 21).

Raccolse quindi una flotta composta da ben 80 navi a Portus Itius (odierna Boulogne) e decise di trasportare nell’isola la settima e la decima legione; suddivise le navi da guerra di cui disponeva tra il questore, i legati e i prefetti. A esse si aggiungevano altre diciotto navi da carico che furono riservate alla cavalleria; lo stesso Cesare nei suoi commentari ci riferisce che “verso la mezzanotte salpò […] giunse con le prime navi in Britannia verso le dieci del mattino. Ivi vide schierato su tutti i colli l’esercito nemico in armi”. (IV, 23).

Dopo molte difficoltà, l’esercito romano riuscì a sbarcare in Kent, dove i Britanni tentarono di ostacolare lo sbarco dei romani, che però riuscirono a mettere in fuga i difensori; tuttavia mancò una definitiva vittoria, a causa del mancato arrivo della cavalleria romana. I nemici “mandarono ambasciatori a Cesare per chiedere la pace: promisero che avrebbero dato ostaggi e avrebbero eseguito tutti i suoi ordini. Insieme con questi ambasciatori giunse anche Commio” (IV, 27) che poco dopo essere sbarcato in Britannia era stato fatto prigioniero.

La pace fu però di brevissima durata poiché i capi britannici, accortisi che i romani mancavano di cavalleria (poiché le navi incaricate di trasportarla erano state bloccate e costrette a tornare in Gallia da una tempesta), attaccarono la VII legione, incaricata di provvedere al raccolto di viveri. Cesare, informato dell'accaduto, reagì prontamente e riuscì a salvare la legione. Rientrati all’accampamento, i romani si prepararono a subire un nuovo attacco dai nemici, che nel frattempo avevano radunato un nuovo esercito. Anche questo terzo attacco fu vanificato, grazie ai circa 30 cavalieri portati da Commio, con l’aiuto dei britanni filo-romani.

“Nello stesso giorno vennero a Cesare da parte dei nemici messi di pace. Cesare chiese un numero di ostaggi doppio di quel che aveva ordinato prima e comandò che glieli portassero poi sul continente”. (IV, 36).

Alla fine Cesare, resosi conto che la sua situazione era sempre più difficile da difendere e gestire, si ritirò, avendo ricevuto solo pochi ostaggi da un paio di tribù. Il Senato, nonostante l’esito non brillantissimo della campagna decretò comunque 20 giorni di feste pubbliche, non appena ricevette la missiva di Cesare contenete il resoconto degli avvenimenti.

Anche se la campagna si concluse con un insuccesso, evidenzia comunque le grandi capacità militari di Cesare e la sua volontà di portare le armate romane oltre i confini mediterranei, cosa alquanto rara non solo nella storia romana, ma in generale nella la storia antica, che ha visto questo meraviglioso mare centro della vita politica, economica e culturale di grandissimi popoli, le cui gesta riecheggiano ancora oggi dopo 2000 anni.


(Nell’immagine: Cesare sbarca in Britannia, incisione di Edward Armitage)


(I passi del De Βello Gallico sono tratti da: Opere di Gaio Giulio Cesare, (A cura di R.Ciaffi e L.Griffa), UTET, Torino 1973)

VOCI DI ROMA

IL TESTAMENTO DI ATTALO III

“Era frattanto morto Attalo Filometore ed Eudemo di Pergamo ne portò a Roma il testamento nel quale era stato indicato come erede del re il popolo romano. Subito Tiberio [Gracco], per favorire il popolo, presentò una proposta di legge in virtù della quale le ricchezze del re, portate a Roma, dovevano essere distribuite ai cittadini cui erano toccate in sorte le terre per le spese d'impianto e di avvio delle attività agricole. Per quel che riguardava invece le città del regno di Attalo, egli affermò che non era di competenza del Senato prendere decisioni, ma che ne avrebbe personalmente riferito al popolo.

Fu soprattutto per questo che il Senato si sentì offeso”.

✍️ Plutarco, Vite di Tiberio e Caio Gracco, 14 (a cura di Domenico Magnino), BUR, Milano 1991.

Vista dell'antica Pergamo.

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Il 16 maggio del 218 d.C. veniva proclamato imperatore Marco Aurelio Antonino Augusto, meglio conosciuto come Elagabalo.

Di origine siriana, era per diritto ereditario l'alto sacerdote del Dio Sole (El-Gabal) di Emesa ed era imparentato con la dinastia dei Severi grazie alla madre Giulia Soemia, figlia di Giulia Mesa (cognata di Settimio Severo), a sua volta sorella di Giulia Domna, moglie di Settimio (Giulia Soemia era quindi cugina di Caracalla).

Elagabalo divenne imperatore grazie soprattutto alla nonna Giulia Mesa, la quale cercò l'appoggio dei legionari grazie alle ingenti ricchezze possedute dalla famiglia esiliata in Siria da Macrino e facendo leva sul malcontento intorno alla figura dell'Imperatore, malvisto dall'esercito a causa della sua partecipazione all'assassinio di Caracalla, inviso a molti romani ma non dalle legioni e a causa della sua fallimentare politica orientale: concessione dell'Armenia a Tiridate II e invasione della Mesopotamia da parte del re dei Parti Artabano V, con una conseguente pace ingloriosa.

All'alba del 16 maggio del 218 d.C. Elagabalo venne proclamato imperatore. Queste le parole di Cassio Dione, sebbene ci siano lacune e non si capisca chi fu il vero promotore della sua acclamazione tra i soldati di rango, oltre alla discussa paternità di Caracalla (secondo Erodiano fu la stessa Giulia Mesa a rivelare ciò, anche per ottenere l'appoggio delle legioni):

“Un certo Eutichiano [forse coincide con Gannide, cresciuto alla corte di Emesa e fautore della rivolta contro Macrino, grazie anche all'appoggio di Comazonte, liberto asceso al comando della II legio Partica] avendo notato

l'odio dei soldati contro Macrino e persuaso anche dal Sole, che chiamano Elagabalo e che venerano sommamente, tentò di rovesciare Macrino e di sostituirgli come imperatore Avito, il nipote di Mesa, benché ancora fanciullo e con pochi sostenitori tra soldati e senatori […]. Fingendo che egli fosse un figlio illegittimo di Caracalla e facendogli indossare un abito che questi portava quando era un fanciullo […] di notte lo condusse nell'accampamento e persuase alla ribellione i soldati già bramosi di avere un pretesto per una rivolta”.

✍️ I passi sono tratti da: Cassio Dione, LXXXIX, 31, (a cura di Galimberti Alessandro), BUR, Milano 2018.

Busto di Elagabalo conservato ai Musei Capitolini.

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Il 12 maggio del 113 d.C. a Roma veniva inagurata la colonna Traiana.

La grandiosa colonna coclide celebrava la conquista della Dacia da parte dell'imperatore Traiano, avvenuta pochi anni prima, nel 106 d.C., dopo due sanguinose guerre. La colonna è del tipo “centenario” ed era alta 88 piedi romani, che corrispondono a 29,78 metri, che diventano 39,86 includendo anche il piedistallo alla base e la statua dell'imperatore posta alla sommità. Era posta alla termine del foro di Traiano, affiancata dalle due biblioteche fatte erigere dallo stesso imperatore.

Lungo la colonna si sviluppano 200 metri di magnifici fregi istoriati, che si arrotolano intorno al fusto per 23 volte e raffigurano 150 scene, animate da circa 2500 figure. L'altezza del fregio cresce con l'altezza, da 0,89 a 1,25 metri, in maniera da correggere la deformazione prospettica verso l'alto e far credere allo spettatore che le figure abbiano la stessa grandezza.

L'imperatore Traiano è rappresentato ben 59 volte nei rilievi della Colonna. La sua rappresentazione è però sempre realistica ed esprime, con gesti misurati, con sguardi fissi e composizioni ben architettate, la sua attitudine al comando, la sua saggezza, la sua abilità militare. Non possiede perciò capacità sovrumane o attributi adulatori, la sua è una rappresentazione dalla quale scaturisce oggettivamente la levatura morale.

Come scrive Cassio Dione, alla sua morte, le ceneri di Traiano furono riposte in un'urna d'oro e tumulate all'interno del basamento della colonna, primo imperatore sepolto all'interno del perimetro cittadino.

(In foto: denario coniato nel 114 d.C. che presenta sul dritto il busto laureato dell'imperatore e sul verso la colonna, da notare in particolare la rappresentazione della statua che in età romana ornava la sommità del monumento).

Per la festa dei Saturnali, Romolo decide di invitare a banchetto tutti gli dèi insieme ai Cesari. Nell'Olimpo, sotto la Luna, vengono disposti i troni e i letti. Le divinità decidono di sottoporre gli invitati ad un agone con un unico obiettivo: CHI E’ STATO IL MIGLIORE DI TUTTI I TEMPI?

A questa sfida prendono parte anche Giulio Cesare e Alessandro Magno.

Dal libello di Giuliano l'Apostata, “Il Simposio”, vedremo gli imperatori sfidarsi, le divinità scegliere, i giudicanti giudicati.

Quale sarà il vincitore ed in base a quali criteri?

Scopriamolo insieme e diteci la vostra!

⚡️⚡️ LA FIERA DEGLI IMMORTALI.

IL SIMPOSIO, OVVERO QUELLA VOLTA CHE GLI IMPERATORI SFIDARONO GLI DEI

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Il 10 maggio del 238 d.C. moriva ad Aquileia Gaio Giulio Vero Massimino, meglio noto come Massimino il Trace.

Nel 235 d.C. alla morte di Alessandro Severo, fu proclamato imperatore delle legioni renane di cui era il comandante, primo barbaro a raggiungere la porpora imperiale. Egli ottenne fin da subito grandi consensi presso i soldati, grazie alle sue vittoriose campagne contro gli Alamanni. Ma divenne ben presto inviso al senato, non solo perché non faceva parte dell'ordine senatorio, ma soprattutto a causa della sua decisione di imporre una fortissima pressione fiscale per far fronte alla grave crisi militare in cui versava l'impero. Fu quindi dichiarato nemico pubblico e i senatori nominarono imperatore in sua vece l'anziano Gordiano, che si associò il figlio.

Costoro furono presto eliminati dai soldati fedeli a Massimino e allora il senato proclamò imperatori Balbino e Pupieno e Massimino decise allora di marciare contro Roma. Decise prima di assediare Aquileia, ma le operazioni si rivelarono più lunghe e complesse del previsto. “Allora Massimino, attribuendo l'insuccesso alla ignavia dei suoi, fece uccidere, proprio in un momento così inopportuno, tutti i capi dell'esercito, provocando maggior malcontento” (Historia Augusta, Vita di Massimino, XXIII).

“Mancavano i viveri, perché un ordine del senato pervenuto a tutte le province e i comandi aveva tagliato ogni possibilità di rifornimento. L'assediante si trovava nelle condizioni di un assediato. Frattanto si diffondeva la notizia che tutte le regioni si erano dichiarate ostili a lui. Allora i soldati […] in un momento di tregua si recarono, verso mezzogiorno, alla tenda in cui i due Massimini riposavano, e li uccisero, mostrando poi le loro teste conficcate su pali agli abitanti di Aquileia”. (Historia Augusta, Ivi).

Così morì il primo degli imperatori che regnarono durante la cosiddetta “anarchia militare”, che si concluderà solo con l'avvento di Diocleziano.

I passi dell'Historia Augusta sono tratti da: Scrittori dell'Historia Augusta (a cura di Leopoldo Agnes), UTET, Torino 1960.

(In foto: busto di Massimino il Trace, conservato nei Musei Capitolini di Roma)

Capitoline Antinous from Hadrian’s Villa, Musei Capitolini, Rome

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