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IL CICLO FESTIVO DEI LEMURIA

Si trattava di feste celebrate il 9, 11 e 13 maggio intitolate agli spiriti dei morti, i Lemuri. Non si conoscono cerimonie pubbliche riferite ai Lemuri, ma abbiamo testimonianza del culto domestico grazie ai Fasti di Ovidio, il quale sottolinea che nel mese di maggio erano sconsigliati i matrimoni: “La gente dice che le donne sfortunate si sono sposate nel mese di maggio”.

Gli spiriti dei morti venivano calmati con delle offerte, tra cui dei fagioli neri e, sempre secondo Ovidio, questa pratica derivava da Romolo, il quale istituì queste celebrazioni per placare lo spirito di Remo.

L'usanza era allontanare gli spiriti a piedi scalzi, lanciando fagioli neri dietro di sé per tutta la notte. Colui che prendeva parte a tale rito era il pater familias, il quale, senza voltarsi, ripeteva la formula «Manes exite paterni», cioè «uscite o spiriti degli antenati». Inoltre ripeteva per nove volte: «Dono questi, con questi fagioli neri redimo e riscatto me stesso e tutto ciò che è mio».

Successivamente la famiglia intera percuoteva dei vasi di bronzo, ripetendo sempre nove volte: «Spiriti ancestrali, andate!».

I passi sono tratti da: Ovidio, Fasti, V, 436-475 (a cura di Luca Canali), BUR, Milano 1998.

VOCI DI ROMA

I BAGAUDI: DISAGIO SOCIALE IN GALLIA (IV E V SEC. D.C.)

“Ed ora dovrei parlare dei Bagaudi, che spogliati, perseguitati, trucidati da giudici malvagi, dopo aver perso la libertà romana persero anche l'onore del nome romano. Si imputa ad essi la propria infelicità e li chiamiamo ribelli, perduti, essi che noi appunto spingemmo ad essere criminali.

Per quali altri motivi infatti diventarono Bagaudi, se non per le nostre ingiustizie, per la disonestà dei giudici, per le prescrizioni e le rapine di coloro che volsero a entrare del proprio guadagno il pretesto della pubblica esazione dei tributi e trasformarono in proprio bottino le intimazioni tributarie? Che a somiglianza di belve inumane non governarono le persone a loro affidate, ma le divorarono e si pascevano non soltanto delle spoglie degli uomini, come sono soliti i più briganti, ma anche dello sbranamento e per così dire del loro sangue stesso?

E così accadde che gli uomini strangolati dai giudici e governanti cominciarono ad essere come barbari, perché non si permetteva loro di essere Romani: si rassegnarono ad essere quel che non erano e furono costretti a difendere almeno la vita, perché vedevano di aver perso del tutto la libertà”.

✍️ Salviano di Marsiglia, Sul governo di Dio, V, 6 (a cura di S. Cola), Città Nuova, Roma 1994.

VOCI DI ROMA

PROPAGANDA ANTIROMANA: LA LETTERA DI MITRIDATE AL RE DEI PARTI ARSACE

“Il re Mitridate saluta il re Arsace […]. I Romani hanno un solo e ormai antico motivo di far guerra a tutte le nazioni, a tutti i popoli, a tutti i re: la loro insaziabile cupidigia di dominio e di ricchezze. Per essa dapprima mossero guerra contro Filippo, re dei Macedoni, nonostante gli avessero simulato amicizia mentre si trovavano sotto la minaccia dei Cartaginesi. Quando Antioco accorse in suo aiuto lo distolsero fraudolentemente dall’intervenire promettendogli delle concessioni in Asia, ma non appena Filippo fu sconfitto, Antioco fu spogliato di tutto il territorio al di qua del Tauro e di diecimila talenti. Poi fu la volta di Perseo, figlio di Filippo, del quale questi astuti e abili orditori di perfidi inganni, dopo molti combattimenti di vario esito, avevano accolto la resa a discrezione sotto la protezione degli dèi di Samotracia e che, poiché nei patti gli avevano promesso salva la vita, fecero morire d’insonnia. Eumene poi, della cui amicizia essi ostentatamente si vantavano, prima lo consegnarono ad Antioco come prezzo della pace, poi, trattandolo come custode di un territorio occupato, a forza di esazioni e di oltraggi, da re che era ne fecero il più miserabile degli schiavi: inoltre, dopo aver prodotto un falso e sacrilego testamento, trascinarono nel corteo trionfale alla stregua di un nemico il figlio di lui, Aristonico, solo perché aveva osato reclamare il regno paterno. Così l’Asia fu da loro occupata. Da ultimo, alla morte di Nicomede saccheggiarono la Bitinia, nonostante esistesse sicuramente un figlio suo natogli da Nisa, a cui egli aveva conferito il titolo di regina.

Debbo proprio portare ad esempio me stesso? Io da ogni parte ero separato dal loro impero, essendo frapposti regni e tetrarchie, ma poiché correva fama che io fossi ricco e non disposto a servire, mi provocarono a guerra tramite Nicomede […]. Ora considera, ti prego, se dopo la nostra disfatta tu possa pensare di opporre una resistenza più valida o che ne venga la fine della guerra?

Io so bene che tu hai una gran quantità di uomini, di armi e di oro: per questo io ti cerco come alleato ed essi ti vogliono come preda […]. Ignori forse che i Romani, dopo che l’Oceano ha arrestato la loro marcia verso occidente, hanno rivolto qua le loro armi? E che non vi è cosa loro, patria, mogli, terre, impero, che fin da principio non sia stato frutto di rapina? […] Che nessuna legge né umana né divina può distoglierli dal depredare e dall’annientare alleati ed amici, popoli vicini e lontani, deboli e potenti, e dal considerare nemici tutti quelli che non sono sotto la loro servitù”.

✍️Sallustio, Storie, IV, 69, (a cura di R. Ciaffi), Milano, Bompiani, 1983.

In foto: Statua di Mitridate oggi conservata al Museo del Louvre di Parigi.

ROMA SU PIETRA

SINCRETISMO TRA PUNICI E ROMANI

Trattasi di un'iscrizione apposta all'ingresso del teatro di Leptis Magna inaugurato nel giugno del 2 d.C. (la si può trovare anche in altri 2 punti ai lati del teatro).

La particolarità sta nel fatto che prima di tutto è bilingue, infatti il testo in punico segue quello latino e in secondo luogo ci mostra la perfetta idea di sincretismo ideologico e materiale nel processo definito romanizzazione.

Riportiamo il testo latino (AE 1998, 1513 = EDCS-06000319):

Imp(eratore) Caesare Divi f(ilio) Aug(usto), pont(ifice) max(imo), tr(ibunicia) pot(estate) XXIV, co(n)s(ule) XIII, patre patr(iae).

Annobal Rufus ornator patriae, amator concordiae,

flamen sufes, praef(ectus) sacr(orum), Himilchonis Tapapi f(ilius), d(e) s(ua) p(ecunia) fac(iendum) coer(auit)

idemq(ue) dedicauit.

L'autore della dedica e finanziatore del teatro è tal Annobal Rufus, figlio di Himilconis Tapapi, secondo gli studiosi appartenente alla famiglia Tapabius o Tapfabius, di origine libico-fenicia (suffisso tipico del sostrato libico-fenicio). Quindi la famiglia in questione, di origini indigene, si è successivamente punicizzata e poi romanizzata, come attesta molto bene l'iscrizione.

Ci sono molti particolari degni di nota:

- l'autore agisce come magistrato punico definendosi suffeta;

- è un «flamen», quindi preposto al culto imperiale;

- si definisce prima «ornator patriae», termine usato anche da Ottaviano Augusto nelle sue Res Gestae e che rimanda alla riqualificazione urbanistica da lui attuata, e poi «amator concordiae», una delle colonne portanti del pensiero politico augusteo, simboleggiato ancor di più nell'iscrizione con il simbolo delle due mani che si stringono (la concordia tra elemento punico e romano).

Per quanto riguarda la parte scritta in punico, la cosa più importante è che non si tratta di una traduzione letterale, poiché essa doveva rivolgersi a un pubblico diverso e quindi esprimere concetti e idee vicini al pensiero dei locali:

- Non si definisce «ornator patriae», ma «uomo di peso», in quanto suffeta;

- «amator concordiae» in punico è reso come «amante della scienza e della perfezione», mancandoci molte informazioni sull'orizzonte ideologico punico non sappiamo cosa si intenda di preciso con questa locuzione;

- alla fine del testo indica che l'ha costruito «secondo il piano», cioè secondo disposizioni urbanistiche dettate dai magistrati punici della città.

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Il 26 aprile del 121 d.C. nacque a Roma il futuro imperatore Marco Aurelio Antonino Augusto, meglio noto semplicemente come Marco Aurelio.

“Marco Aurelio vide la luce a Roma, nei giardini situati sul Celio di proprietà della madre, Domizia Lucilla Minore, che a sua volta doveva averli ereditati da Domizia Lucilla Maggiore. […] Questi giardini si estendevano in uno dei più ameni quartieri della città, sulla lunga collina, o meglio sul pianoro del Celio, lontano dalla congestione della Suburra e dalle nebbie che stagnavano frequentemente sui quartieri bassi”.

“Nel libro I dei Pensieri, in cui rievoca le persone che ha avuto intorno nell'infanzia e che hanno influito su di lui, Marco Aurelio esprime la riconoscenza al bisnonno per non averlo costretto a frequentare le scuole pubbliche e per avergli procurato invece i migliori maestri. Sappiamo d'altronde che, nella sua fanciullezza, portò il nome del nonno, Catilio Severo. In quel periodo il bambino viveva nel giardini del Celio, che amava molto e che dovette lasciare, quando fu adottato da Antonino Pio, nel 138; lì considerò sempre come la sua piccola patria molto tempo dopo aver superato i vent'anni”.

“In apparenza niente designava il giovane Marco a diventare imperatore. Grazie alla sua discendenza dagli Annii della Betica egli apparteneva a quella stessa aristocrazia provinciale spagnola che aveva già dato all'Impero Traiano e Adriano. Ma non risulta che fra i senatori originari della Spagna si sia formato un gruppo politico particolare. Le sue origini provinciali dunque non furono decisive. Contarono di più i legami familiari”.


(I passi sono tratti dalla monagrafia di Pierre Grimal: Marco Aurelio, l'imperatore che scoprì la saggezza, Garzanti, Milano, 2013)

(Nell'immagine: statua equestre dell'imperatore inizialmente posta in Piazza del Campidoglio a Roma, oggi conservata nel vicino Palazzo dei Conservatori)

VOCI DI ROMA

AMMISSIONE DEI GALLI IN SENATO

“L’imperatore [Claudio], per nulla turbato da questi e simili argomenti, subito replicò e poi, convocato il senato, parlò così: «I miei progenitori (il più antico tra loro, Clauso, di origine sabina, fu accolto contemporaneamente nella cittadinanza romana e nel patriziato) inducono a seguire nel governo criteri analoghi ai loro, applicando qui ciò che altrove fu efficace. So bene infatti che la famiglia Giulia fu fatta venire da Alba, i Coruncani da Camerio, i Porci da Tuscolo e che, tralasciando esempi remoti, famiglie di senatori furono accolte dall’Etruria, dalla Lucania e da ogni parte d’Italia: più tardi l’Italia stessa fu ampliata fino alle Alpi, sicché non solo gli individui singolarmente, ma le terre e i popoli furono unificati nel nome di Roma. La nostra patria fu in duratura pace, e fummo potenti sui nemici esterni, proprio quando i Transpadani furono accolti nella cittadinanza, e quando con l’invio di legionari in ogni angolo della terra si sostenne un dominio stremato, con il supporto validissimo dei provinciali. Ci rincresce forse la venuta dei Balbi dalla Spagna, e di altri non meno grandi uomini dalla Gallia Narbonense? Restano i loro discendenti e amano questa patria non meno di noi. Quale altra scelta rovinò Sparta e Atene, pur forti nelle armi, se non il fatto di tenere lontani come stranieri i nemici sconfitti? Invece Romolo, il nostro fondatore, fu tanto più saggio, da saper considerare molti popoli, nello stesso giorno, prima nemici, poi concittadini.

Vi furono stranieri tra i nostri re; l’affidamento di cariche pubbliche a figli di liberti non è, come molti erroneamente pensano, recente innovazione, ma frequente pratica dei nostri antenati. Certo i Senoni furono nostri nemici: ma Volsci ed Equi non si schierarono mai contro di noi? Fummo sconfitti dai Galli: ma demmo ostaggi anche agli Etruschi e subimmo il giogo dei Sanniti. Eppure, a riconsiderare tutte le nostre guerre, nessuna fu conclusa così in breve quanto quella contro i Galli, e allora la pace fu duratura e leale. Ormai essi sono uniti a noi grazie ad usi, attività, parentele: contribuiscano anche con l’oro e le risorse, piuttosto che possederli per sé soli. Tutti gli istituti, o senatori, che ora son giudicati di grande antichità, furono innovazioni: le magistrature concesse ai plebei dopo i patrizi, ai Latini dopo i plebei, a tutti i popoli d’Italia dopo i Latini. Anche questo diverrà consuetudine, e ciò che oggi giustifichiamo con l’esempio del passato, sarà a sua volta di esempio».

Al discorso dell’imperatore seguì il decreto del senato: gli Edui ebbero per primi il diritto di essere senatori in Roma”.


✍️Tacito, Annali, XI, 24 - 25,1; (a cura di R. Oniga), Einaudi, Torino, 2003.


(Nella fotografia: Tabula Claudiana detta anche Tavola di Lione, in quanto rinvenuta nel 1528 a Lione, nella quale è possibile leggere un ampio stralcio del discorso tenuto dall'imperatore Claudio in Senato, discorso ripreso appunto da Tacito negli Annali)

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Il 22 aprile del 455 d.C. moriva a Roma l’imperatore Petronio Massimo, dopo aver regnato per poco più di un mese, dal 17 marzo del 455 alla sua morte.

Il futuro imperatore nacque nel 396 da una famiglia senatoriale romana, la gens Anicia, una tra le più illustri di Roma. Nel 411 divenne pretore e successivamente comes sacrarum largitionum, una sorta di ministro delle finanze imperiali. Fu Prefetto d’Urbe e Prefetto del pretorio d'Italia, ricoprendo anche il consolato per due mandati. Divenne imperatore dopo la morte di Valentiniano III il 16 marzo del 455 e si assicurò l'appoggio del Senato distribuendo denaro ai funzionari del palazzo imperiale. Durante il suo breve regno fece coniare una quantità elevata di monete d'oro e, secondo la storiografia moderna, cercò di garantirsi il sostegno dei soldati con forti donazioni in denaro.

Licinia Eudossia fu la causa della sua caduta; la donna era infatti stata costretta a sposare Massimo e si appellò ai Vandali che, guidati da Generico, attaccarono l'Italia. Egli non riconobbe l'autorità di Massimo e richiese le isole Baleari, la Sardegna, la Corsica e la Sicilia e, partito dall'Africa settentrionale, raggiunse Roma. Appena la notizia si diffuse, il popolo si ribellò e Petronio Massimo decise di abbandonare la città, ma fu assassinato dagli schiavi imperiali o da un gruppo di soldati ribelli, mentre tentava di fuggire.

Purtroppo è impossibile avere certezze sulla morte dell’imperatore, quel che è certo è che due giorni dopo la morte sua morte, Genserico giunse a Roma conquistandola senza colpo ferire poiché si era precedentemente accordato con papa Leone I, che gli ingiunse di risparmiare gli abitanti.

(In immagine: Solido coniato durante il regno di Petronio Massimo, nel quale l’imperatore è rappresentato sul dritto)

21 APRILE - ROMAE DIES NATALIS

In questo giorno meraviglioso nacque Roma. In principio una Città piena di timore. I nemici la circondavano in ogni dove. Nulla assicurava la sua sopravvivenza. Da questa Città, generazione dopo generazione, nacque una Civiltà che oggi vive attraverso noi.

Una tomba modesta di un Africano, ucciso nel 238 d.C., dice di più sul successo di Roma che un lungo discorso. Vi si può leggere difatti: “Morì per amore di Roma”.

VOCI DI ROMA

CONTRO LA REGALITA’ TARDO ANTICA

“Voglio dire che nulla in altri tempi ha così minato l'impero romano come ore il teatrale apparato per la persona fisica del basiléus che anche per voi [Arcadio] si appresta, come se si officiasse un culto, in segreto, perché poi essa venga esposta al pubblico alla maniera barbarica […].

Codesta maestosità vostra, unita al timore di assimilarvi ai mortali, ove mai divenisse abituale spettacolo al pubblico, vi tiene rinchiusi, volontariamente segregati […]. Sino a quando disdegnerete la misura umana non raggiungerete neppure la perfezione umana”.

✍️ Sinesio, Orazione prima sulla regalità, 14 (a cura di Carlotta Amande e Luciano Canfora), Sellerio Editore, Palermo 2000.


(Nell'immagine: il Missorio di Teodosio, un piatto decorato di largizione, prodotto nel 388 o 393 d.C. a Costantinopoli per i decennalia o i quindecennalia di Teodosio I, raffigurato in trono dinanzi a un tribunal, sormontato da timpani triangolari e aperto in un arco al di sopra della figura imperiale e affiancato da Valentiniano II (od Onorio) e Arcadio, mentre consegna i codicilla a un alto funzionario. Nella zona inferiore del disco è raffigurata la Terra, sdraiata, con cornucopia e il volto di Teodosio I con diadema, circondato dal nimbo, è giovanile. L'opera riunisce in sé tutte le componenti della regalità tardo antica: la tradizione del culto imperiale, la maestà della persona imperiale che è esaltata, la prosperità e l'universalità del regno e l'unità della famiglia imperiale. Arco e nimbo fanno riferimento alla volta cosmica e dunque al carattere semi-divino del personaggio che sovrasta).

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Il 12 aprile del 238 d.C. morirono Gordiano II, sul campo di battaglia e suo padre Gordiano I, suicidatosi dopo aver appreso della morte del figlio.

Padre e figlio divennero imperatori per volere dei grandi proprietari terrieri, dei soldati ausiliari e dei cittadini della provincia d'Africa, di cui Gordiano I era proconsole, subito dopo che il Senato dichiarò Massimino il Trace hostis publicus. Il padre si associò immediatamente il figlio, mentre il nipote venne nominato Cesare (il futuro imperatore Gordiano III dal 238 al 244 d.C.) e iniziò ad attuare un programma di risanamento delle finanze di Roma, cercando di ingraziarsi il popolo e i soldati e ricevendo l'appoggio di quasi tutte le province romane.

Nonostante l'appoggio ottenuto in tutto l'Impero e anche dal popolo, il loro regno durò poco meno di un mese, poiché Capeliano, il governatore di Numidia (o meglio, legatus Augusti pro praetore), era un deciso oppositore di Gordiano I per due ragioni: ebbe una disputa legale con lui (Erodiano, VII, 9, 2) ed era sostenitore di Massimino.

L'unico scontro decisivo fu la battaglia di Cartagine, combattuta tra una legione di tutto rispetto quale era la III Augusta e reparti ausiliari e cittadini raccogliticci: “Capeliano era alla testa di una poderosa armata di giovani vigorosi e ben armati, oltre che addestrati alla guerra nelle lotte sostenute contro i barbari […] i Cartaginesi erano superiori di numero, ma erano anche una turba indisciplinata e con poco addestramento militare. A peggiorare la situazione mancavano armi ed equipaggiamento adeguati” (Erodiano, VII, 9, 6).

“[…] sbaragliati dalla cavalleria numida, i pochi superstiti gettarono a terra le armi fuggendo verso la città. Molti vennero calpestati nella confusione che seguì, incalzati fin sotto le mura e trucidati davanti alle loro famiglie. Furono così tanti i morti che il corpo di Gordiano non fu ritrovato. Quando Gordiano I seppe che Capeliano era entrato in città, l'anziano imperatore si suicidò, mentre il vincitore mise a morte tutti i loro sostenitori confiscandone i beni” (Erodiano, VII, 9, 4-10).


(In foto sesterzio di Gordiano I, sul dritto: IMP(ERATOR) CAES(AR) M(ARCUS) ANT(ONIUS) GORDIANUS AFR(CANUS) AUG(USTUS) e busto laureato di Gordiano verso destra; sul rovescio: VICTORIA AUGUSTORUM e la vittoria drappeggiata con una corona nella mano destra e una palma nella sinistra. Questa moneta riporta quindi il cognomen Africanus, adottato dalla presa del potere e al rovescio AVGG, indicando quindi il regno dei due Augusti).


(I passi di Erodiano sono tratti dalla sua Storia dell'Impero Romano dopo Marco Aurelio, VII, 9, 2-10 (a cura di Filippo Cassola), Einaudi, Torino 2017).

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Il 9 aprile del 193 d.C. Settimio Severo veniva proclamato imperatore, primo sovrano di origine africana della storia romana.

Le circostanze che gli permisero di prendere il potere sono alquanto singolari: dopo l'assassinio di Commodo, il Senato aveva nominato imperatore Pertinace, che fu però presto eliminato dai Pretoriani e sostituito da Didio Giuliano, che acquistò la carica grazie alle sue grandissime disponibilità finanziarie. Ma le legioni non lo accettarono e si ribellarono, come riferisce molto precisamente Cassio Dione: “a quel tempo c'erano tre uomini, ognuno dei quali al comando di tre legioni, Severo, Nigro ed Albino. Quest'ultimo era il governatore della Britannia, Severo della Pannonia, Nigro della Siria” (Cassio Dione, LXXIII, 14).

“Dei tre generali che ho poc'anzi menzionato Severo era il più scaltro: avendo previsto che in seguito alla deposizione di Giuliano loro tre si sarebbero scontrati ed avrebbero combattuto per impossessarsi del potere supremo, decise di guardagnarsi l'appoggio […] di Albino nominadolo Cesare. […] Albino, nell'aspettativa di dividere il potere con Severo, rimase dov'era, mentre Severo si mosse alla volta di Roma”. (Cassio Dione, Ivi, 15).

Il particolareggiato resoconto Dioneo prosegue riferendo la reazione di Didio Giuliano: “Quando venne a conoscenza di questi fatti attraverso l'autorità del Senato, dichiarò Severo nemico pubblico e si preparò a combatterlo […] mandò contro Severo alcuni uomini col compito di ucciderlo a tradimento: questi, invece, dopo essere giunto in Italia, occupò Ravenna senza combattere, mentre gli uomini che Giuliano gli mandava incontro passavano dalla sua parte […] Allora Giuliano ci convocò [convocò i senatori, tra cui lo stesso Dione] e ci ordinò di decretare che Severo diventasse suo collega nell'impero. Ma i soldati, persuasi da una lettera di Severo del fatto che, se avessero consegnato gli uccisori di Pertinace e avessero garantito la pace, non sarebbe accaduto alcun male, arrestarono gli assassini di Pertinace. […] Condannammo allora a morte Giuliano, proclamammo Severo imperatore attribuimmo onori divini a Pertinace. (Cassio Dione, Ivi, 16-17)


(Nell'immagine: Busto di Settimio Severo conservato nel Museo Archeologico Nazionale di Napoli)

(I passi di Cassio Dione sono tratti da: Cassio Dione, Storia Romana, Volume Nono (a cura di A. Galimberti, A. Stroppa), BUR, Milano 2018.

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