#antifascismo

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“ Finché il mondo resterà diviso in Stati sovrani, ciascuno di essi si porrà il fine della potenza militare, e la conseguenza sarà il potenziamento industriale, giacché non si dà l'una senza l'altro. Che importerà ai governanti che vadano in malora l'ambiente naturale e il patrimonio artistico? Meno che niente. E meno che niente importerà, purtroppo, ai governanti, finché le necessità della difesa appariranno loro preminenti.
Il nemico anche per gli ecologi è dunque lo Stato sovrano armato. La battaglia ecologica ha una sola possibilità di riuscire vittoriosa: che venga prima vinta la battaglia antimilitarista.
Compagni marxisti mi obiettano che il principale male da combattere è il capitalismo. Compagni cattolici mi obiettano che la cosa più importante è la rinascita dello spirito cristiano. Gli uni e gli altri non danno peso alla divisione del mondo, qualcuno arriva perfino a sostenere la tesi aberrante che l'armamento è un bene, in quanto giova all'equilibrio delle forze (cioè, all'equilibrio del terrore).
Alcuni tra gli stessi compagni anarchici mi rimproverano di fare un discorso parziale: separata dalla lotta contro lo Stato, la lotta contro il militarismo sarebbe inefficace. È vero il contrario: la lotta contro il militarismo può tanto più facilmente trovare aderenti quanto più è separata dalla lotta contro lo Stato (o contro il capitalismo, o contro lo spirito anticristiano).
Lo Stato, il capitalismo, lo spirito anticristiano sono mali anche per me: ma l'era atomica ha imposto un ordine di priorità che dobbiamo rispettare. Non è che i problemi della libertà e della giustizia siano stati vanificati. Ma non è da essi che si può più partire per impostare una battaglia politica. La spinta umanitaria che ci ha costretto a occuparci di politica e a diventare antifascisti resta integralmente valida: ma in seno ad essa l'ordine di priorità nella soluzione dei problemi è cambiato. Solo la battaglia per la pace può includere anche le altre.
La battaglia per la giustizia sociale, cioè la battaglia contro il capitalismo, o quella per la rinascita dello spirito cristiano, o quella contro lo Stato, non devono diventare alibi per disertare la sola battaglia che sia possibile fare e che sia importante fare: quella contro il militarismo italiano.
Oggi come oggi non si vede come abbattere il capitalismo, o come far nascere una diffusa coscienza antistatalista. Mentre si vede come far nascere una diffusa coscienza antimilitarista, e come abbattere il militarismo italiano.
Ed ecco saltar su i pacifisti da strapazzo, cioè i guerrafondai travestiti da pacifisti: «Proprio dal militarismo italiano dobbiamo cominciare? Il disarmo non deve partire dai colossi che minacciano davvero la pace nel mondo, cioè dagli Stati Uniti, dall'Unione Sovietica, dalla Cina?» Rispondo parafrasando Lenin: «La catena del militarismo può essere spezzata in qualsiasi punto. L'Italia rappresenta uno degli anelli più deboli? Tanto meglio: vuol dire che noi italiani siamo facilitati in questa lotta. Spezzare la catena del militarismo nell'anello più debole, può diventare il nostro motto».
Certo, si tratterebbe di un intervento che porrebbe fine a un'istituzione millenaria. Ma quando mai la politica della sinistra è consistita nello stare a vedere, nel lasciar correre, nel tenere in piedi tutto quello che il passato ci ha trasmesso, nel lasciare che il mondo vada alla deriva? La politica della sinistra è sempre consistita nel rinnovare, nello svecchiare. “

Carlo Cassola,La lezione della storia. Dalla Democrazia all’Anarchia: una via per salvare l’Umanità, BUR, 1978¹; pp. 93-95.

“ — Occorre un vero nazionalismo russo — disse Rebrov. — Qualsiasi. Anche il più fascista. Altrimenti la Russia non si solleverà. Altrimenti il popolo russo sarà per sempre l'arena e il materiale per furfanti d'ogni tipo.
E di nuovo cominciammo un'assurda discussione sul nazionalismo, sull'internazionalismo, sull'antisemitismo, sul sionismo.
— In tutte le nostre conversazioni di questo genere — disse poi Rebrov, — c'è qualcosa di ipocrita, di vergognoso e vile. Eppure un popolo che desidera acquistare un ruolo autonomo attivo nella storia, non può fare a meno del nazionalismo. In tutte le nostre repubbliche prospera il nazionalismo. E noi riconosciamo la sua legittimità. Ma per il popolo più infelice e oppresso di questo paese, per il popolo russo, non ammettiamo nemmeno che si possa pensare al nazionalismo. Questo, cari signori, non è altro che tradimento del proprio popolo!
— Io sono pronto ad accettare un nazionalismo russo — disse Senzanome — ma soltanto con un programma puramente sociale. In caso contrario il nazionalismo russo degenera sempre in un'unica formula idiota: la colpa è tutta dei giudei.
— Ma lei cosa intende per programma sociale? — chiesi io.
— La cultura occidentale e il modo occidentale di vita — disse Senzanome.
— Un errore madornale — disse Rebrov. — Il popolo russo non è un popolo di modello occidentale. È semplicemente russo, e basta. È un modello a sé come ogni altro grande popolo.
Ci separammo senza aver trovato un posto adatto dove mangiare qualcosa e senza essere arrivati ad un accordo sul tema del nazionalismo russo. Per quel che mi riguarda, non mi sono mai sentito un rappresentante della nazione russa. Mi sono sempre sentito moscovita, rappresentante di un particolare insieme cosmopolita di uomini delle più diverse nazionalità, e di quella parte di questo insieme, tra l'altro, i cui rappresentanti sono sospettati di essere ebrei mascherati o semiebrei. Mosca, personificando tutto il nostro enorme paese in tutta la sua varietà, nello stesso tempo si contrappone a esso come una formazione completamente nuova universale e si contrappone alle remote provincie semiasiatiche. Anch'io a volte nel grigiore e nella tristezza moscovita noto qualcosa di più espressivo del brio e della vivacità delle città dell'Europa occidentale. Vi intravvedo qualcosa di affine ad un bazar orientale. Mosca ha il futuro. L'Occidente il passato. E se dobbiamo parlare del ruolo del popolo russo, per me esiste soltanto questo problema reale: cosa apporterà il popolo russo a questa nuova comunanza, quando sarà sparito dalla faccia della terra come popolo russo. Ed esso praticamente sta scomparendo come nazione. La rivoluzione, la guerra civile, la collettivizzazione, le infinite repressioni, la seconda guerra mondiale, tutto questo distrusse la Russia come formazione nazionale. La Russia da tempo non c'è più. E non ci sarà mai più. È rimasta la popolazione russa, materiale per qualcosa d'altro, ma non per una nazione. Io sono convinto del fatto che per la popolazione russa il nazionalismo sarebbe un fatto estremamente reazionario. Sarebbe un tornare indietro, non un progresso. “

Aleksandr Zinov'ev, Il radioso avvenire, (traduzione di Isabella Leone), Spirali Edizioni, 1985¹; pp. 383-385.

[ 1ª pubblicazione: Светлое будущее, Éditions L'Âge d'Homme, Lausanne (Svizzera), 1978 ]

“ Tutti i giurati portavano all’occhiello della giacca il distintivo del partito fascista; ma se a ciascuno di loro, confidenzialmente, fosse stato domandato se si sentiva fascista, con qualche esitazione avrebbe risposto di sì; e se la domanda gli fosse stata fatta ancor più confidenzialmente, dentro ristretta cerchia e aggiungendo un « veramente », uno - pare di poter dire - avrebbe nettamente risposto di no, mentre gli altri avrebbero evitato il sì: e non per prudenza, ma sinceramente. Non si erano mai posto il problema di giudicare il fascismo nel suo insieme, così come non se lo erano posto nei riguardi del cattolicesimo. Erano stati battezzati, cresimati, avevano battezzato e cresimato, si erano sposati in chiesa (quelli che si erano sposati), avevano chiamato il prete per i familiari morituri. E del partito fascista avevano la tessera e portavano il distintivo. Ma tante cose disapprovavano della chiesa cattolica. E tante del fascismo. Cattolici, fascisti. Ma mentre il cattolicesimo stava allora lì, fermo e massiccio come una roccia, per cui sempre allo stesso modo potevano dirsi cattolici, il fascismo no: si muoveva, si agitava, mutava e li mutava nel loro sentirsi - sempre meno - fascisti. Il che accadeva in tutta Italia e per la maggior parte degli italiani. Il consenso al regime fascista, che per almeno dieci anni era stato pieno, compatto, cominciava ad incrinarsi e a cedere. La conquista dell’Etiopia, va bene: benché non si capisse come mai ad un impero conquistato corrispondesse, per i conquistatori, un sempre più greve privarsi delle cose che prima, almeno per chi poteva comprarle, abbondavano. E poi: perché mai Mussolini era andato a cacciarsi nella guerra spagnola e in una sempre più stretta amicizia con Hitler?
E anche se si continuava a ripetere, sempre più straccamente, l’iperbole del dormire con le porte aperte, era quella porta aperta al Brennero che cominciava a inquietare: che magari non vi sarebbero affluite e dilagate le forze della devastazione e del saccheggio, ma pareva vi affluissero già e dilagassero gli stormi del malaugurio. Andava sempre peggio, insomma. E il « quieto vivere », la cui ricerca tanta inquietudine aveva dato nei secoli a coloro che vi aspiravano, cominciava a disvelarsi sempre più lontano e irraggiungibile. Il partito fascista diventava sempre più obbligante, nell’esservi dentro; e sempre più duro, nell’esservi fuori. “

Leonardo Sciascia,Porte aperte, Adelphi (collana Fabulan° 18), 1987¹; pp. 71-72.

“ Pareva proprio un maestro di scuola che non fosse soddisfatto dei suoi scolari. Disse che era rimasto deluso, che gli dispiaceva di averne dovuti bocciar tanti, che sarebbe stato più contento se avesse potuto promuoverli tutti. In ogni modo, disse, quelli che non sono riusciti a superar l’esame non dovevano avvilirsi: sarebbero stati trattati bene, non avrebbero avuto da lagnarsi, purché lavorassero, e mostrassero maggior impegno nel lavoro di quel che non avessero mostrato sui banchi di scuola. Mentre parlava, il gruppo dei promossi guardava i compagni sfortunati con aria di compatimento, e i più giovani si davano l’un l’altro gomitate nei fianchi, ridacchiando fra loro. Poi, quando il Sonderführerebbe finito di parlare, il colonnello sì volse al Feldwebele disse: «Alles in Ordnung. Weg! » e si avviò verso gli uffici del Comando, senza voltarsi indietro, seguito dagli ufficiali che si volgevano indietro ogni tanto, parlando fra loro a voce bassa.
«Voi resterete qui fino a domani, e domani partirete per il campo di lavoro» disse il Feldwebelal gruppo di sinistra. Poi si volse al gruppo di destra, quello dei promossi, e con voce dura ordinò che si mettessero in riga. Non appena i prigionieri si furon disposti l’uno accanto all’altro, a contatto di gomito (avevano la faccia contenta, ridevano guardando i compagni con l’aria di burlarsi di loro), li ricontò rapidamente, disse «trentuno», e fece con la mano un cenno alla squadra di SS che aspettava in fondo al cortile. Poi ordinò: «dietro front, avanti marsch!». I prigionieri fecero dietro front, si mossero battendo forte i piedi nel fango, e quando si trovarono con la faccia contro il muro di cinta del cortile, «halt!» ordinò il Feldwebel, e voltosi alle SS che s’erano poste dietro ai prigionieri e già avevano alzato i fucili mitragliatori, si schiarì la gola, sputò per terra, e gridò: «Feuer!».
Al crepitio della scarica il colonnello, che era ormai giunto a pochi passi dalla porta del Comando, si fermò, si volse di scatto, anche gli ufficiali si fermarono, e si voltarono indietro. Il colonnello si passò la mano sul viso, come per asciugarsi il sudore, e seguito dai suoi ufficiali entrò nel Comando.
«Ach so!» disse il Sonderführerdi Melitopol passandomi vicino. «Bisogna ripulir la Russia di tutta questa marmaglia letterata. I contadini e gli operai che sanno leggere e scrivere troppo bene, sono pericolosi. Tutti comunisti».
«Natürlich» risposi. «Ma in Germania tutti, operai e contadini, sanno leggere e scrivere benissimo».
«Il popolo tedesco è un popolo di alta Kultur».
«Naturalmente,» risposi «un popolo di alta Kultur».
«Nicht wahr?» disse ridendo il Sonderführer, e s’avviò verso gli uffici del Comando.
E io rimasi solo in mezzo al cortile, davanti ai prigionieri che non sapevano leggere bene, e tremavo tutto. “

Curzio Malaparte,Kaputt, Introduzione di Mario Isnenghi, Mondadori ( Collana Oscarn° 1102 ), 1978; pp. 226-227.

[ 1ª ed. originale nel 1944 presso l’editore Casella di Napoli ]

“ La via democratica al socialismo è una trasformazione progressiva – che in Italia si può realizzare nell’ambito della Costituzione antifascista – dell’intera struttura economica e sociale, dei valori e delle idee guida della nazione, del sistema di potere e del blocco di forze sociali in cui esso si esprime. Quello che è certo è che la generale trasformazione per via democratica che noi vogliamo compiere in Italia, ha bisogno, in tutte le sue fasi, e della forza e del consenso.
La forza si deve esprimere nella incessante vigilanza, nella combattività delle masse lavoratrici, nella determinazione a rintuzzare tempestivamente – ci si trovi al governo o all’opposizione – le manovre, i tentativi e gli attacchi alle libertà, ai diritti democratici e alla legalità costituzionale. Consapevoli di questa necessità imprescindibile, noi abbiamo messo sempre in guardia le masse lavoratrici e popolari, e continueremo a farlo, contro ogni forma di illusione o di ingenuità, contro ogni sottovalutazione di propositi aggressivi delle forze di destra. In pari tempo, noi mettiamo in guardia da ogni illusione gli avversari della democrazia. Come ha ribadito il compagno Longo al XIII Congresso, chiunque coltivasse propositi di avventura sappia che il nostro partito saprebbe combattere e vincere su qualunque terreno, chiamando all’unità e alla lotta tutte le forze popolari e democratiche, come abbiamo saputo fare nei momenti più ardui e difficili.
Del “consenso” la profonda trasformazione della società per via democratica ha bisogno in un significato assai preciso: in Italia essa può realizzarsi solo come rivoluzione della grande maggioranza della popolazione; e solo a questa condizione, “consenso e forza” si integrano e possono divenire una realtà invincibile.
Tale rapporto tra forza e consenso è del resto necessario quali che siano le forme di lotta adottate, anche se si tratta di quelle più avanzate fino a quelle cruente. Il nostro movimento di liberazione nazionale, che fu un movimento armato, ha potuto resistere e vincere perché era fondato sull’unità di tutte le forze popolari e democratiche e perché ha saputo conquistarsi il sostegno e il consenso della grande maggioranza della popolazione. Del resto, anche sulla sponda opposta, si è visto che i movimenti antidemocratici e lo stesso fascismo non possono affermarsi e vincere unicamente con il ricorso alla violenza reazionaria, ma hanno bisogno di una base di massa più o meno estesa, soprattutto in paesi con una struttura economica e sociale complessa ed articolata. Ed è perfino ovvio ricordare che, più in generale, il dominio della borghesia non si regge solo sugli strumenti (da quelli più brutali a quelli più raffinati) della coercizione e della repressione, ma si regge anche su una base di consenso più o meno manipolato, su un certo sistema di alleanze sociali e politiche.
È il problema delle alleanze, dunque, il problema decisivo di ogni rivoluzione e di ogni politica rivoluzionaria, ed esso è quindi quello decisivo anche per l’affermazione della via democratica. “

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Brano tratto da Riflessioni sull’Italia dopo i fatti del Cile, articolo di Enrico Berlinguer pubblicato il 12 ottobre 1973 su Rinascita, periodico politico-culturale del Partito Comunista Italiano.

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