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Like A Fire (su Wattpad) https://my.w.tt/8oFD7aHbwO Due ragazze e due ragazzi, Il fuoco e l'acqua, L

Like A Fire (su Wattpad) https://my.w.tt/8oFD7aHbwO

Due ragazze e due ragazzi,
Il fuoco e l'acqua,
La terra e l'aria,
Mondi destinati a incontrarsi.


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Nathan Never  ©Sergio Bonelli EditoreAdesso in edicola Nathar Never n. 331 “Codice fantasma”, disegn

Nathan Never ©Sergio Bonelli Editore
Adesso in edicola Nathar Never n. 331 “Codice fantasma”, disegni miei, storia di Silvia Mericone, Rita Porretto, Davide Rigamonti e copertina di Sergio Giardo.
Ne parlo qui sul mio blog;sul sito Bonelli invece una gallery con matite e schizzi


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Il prossimo mese (dicembre 2018) uscirà in edicola il mio prossimo Nathan Never (SBE editore). In qu

Il prossimo mese (dicembre 2018) uscirà in edicola il mio prossimo Nathan Never (SBE editore). In questo disegno Nathan Never è con la protagonista della storia che si intitolerà “Codice fantasma” (n. 331). Sceneggiatura di Silvia Mericone, Rita Porretto, Davide Rigamonti e copertina di Sergio Giardo(qui tutte le info)


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Versione in grigio dell’Alieno che avevo disegnato quiRealizzato con Clip Studio Paint

Versione in grigio dell’Alieno che avevo disegnato qui
Realizzato con Clip Studio Paint


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Agent Janice - 7. AAA Cercasi ‘Agente Supervisore’ Livello 6 || Parte #2 (on Wattpad) ht

Agent Janice - 7. AAA Cercasi ‘Agente Supervisore’ Livello 6 || Parte #2 (on Wattpad) http://my.w.tt/UiNb/mJnBm8Ostz «Sono l'Agente Phil Coulson, con la Strategic Homeland Intervention Enforcemente e Logistic Division. Sei al sicuro adesso…»


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NGC 34 (NGC 17) - Seyfert 2 Galaxy Credits:  ESA/Hubble & NASA, A. Adamo et al.

NGC 34 (NGC 17) - Seyfert 2 Galaxy

Credits:  ESA/Hubble & NASA, A. Adamo et al.


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NGC 2736 Nebulosa Matita Credits: ESO/Digitized Sky Survey 2, Davide De Martin

NGC 2736 Nebulosa Matita

Credits: ESO/Digitized Sky Survey 2, Davide De Martin


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Galassia Lenticolare NGC 5866 (Galassia Fuso) Credits: NASA, ESA, and The Hubble Heritage Team STScI

Galassia Lenticolare NGC 5866 (Galassia Fuso)

Credits: NASA, ESA, and The Hubble Heritage Team STScI/AURA


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(The Enchanted Village, 1950)
Di A. E. van Vogt

«Esploratori di una nuova frontiera» erano stati chiamati, prima che partissero per Marte.

Per un po’, dopo che la nave si era schiantata nel deserto marziano, uccidendo tutti a bordo salvo - miracolosamente - quell'unico uomo, Bill Jenner continuò a vomitare quelle parole di tanto in tanto, al vento costante, carico di sabbia.

Bill Jenner disprezzava se stesso per l'orgoglio che aveva provato quando le aveva udite per la prima volta.

Ma la sua collera sbiadiva ad ogni miglio che percorreva, e il suo cupo rosseggiante dolore per gli amici perduti divenne una grigia sofferenza. Lentamente si rese conto di aver valutato ogni cosa in maniera rovinosamente sbagliata.

Aveva sottovalutato la velocità alla quale la nave a razzo viaggiava. Aveva calcolato di dover camminare per trecento miglia per raggiungere il basso mare polare che lui e gli altri avevano osservato mentre arrivavano planando dallo spazio esterno. In realtà, la nave doveva aver percorso fulmineamente una distanza immensamente maggiore prima di precipitare al di fuori d'ogni controllo.

I giorni si perdevano dietro di lui, all'apparenza incalcolabili, come quelle sabbie aliene, rosse e roventi, che lo bruciavano attraverso gli indumenti ridotti a brandelli. Quello spaventapasseri, cui si era ridotto un uomo, continuava ad avanzare attraverso l'interminabile, arida distesa… ma non era disposto ad arrendersi.

Quando arrivò alle montagne, il suo cibo era ormai finito da molto tempo. Dei suoi quattro contenitori d'acqua, gliene rimaneva uno soltanto, e quello era talmente vicino a vuotarsi del tutto, che lui si limitava soltanto a inumidire le labbra screpolate e la lingua rigonfia tutte le volte che la sete diveniva insopportabile.

Jenner si era arrampicato in alto, prima di rendersi conto che quella che gli sbarrava la strada non era semplicemente un'altra duna. Fece una sosta, e mentre guardava la montagna che torreggiava sopra di lui, provò un tuffo al cuore. Per un attimo provò la disperata inutilità di quella sua folle corsa verso il nulla… ma raggiunse ugualmente la cima. Vide che sotto di lui c'era una depressione circondata da altre montagne, alte quanto quella sulla quale si trovava, o anche di più. E annidato tra le montagne che formavano la valle c'era un villaggio.

Poteva vedere gli alberi e il pavimento di marmo d'un cortile. Una ventina di edifici erano raccolti intorno a quella che sembrava una piazza centrale. Erano per la maggior parte bassi, ma c'erano quattro torri che svettavano graziosamente verso il cielo.

Debole arrivò alle orecchie di Jenner un fischio acuto e sottile. Crebbe, diminuì, scomparve del tutto, poi si levò un'altra volta, alto e sgradevole. Proprio mentre Jenner si precipitava verso di esso, il fischio gli raschiò le orecchie, arcano e innaturale.

Jenner continuava a scivolare sulla roccia levigata, riempiendosi di lividi tutte le volte che cadeva. Fece metà del percorso, giù verso la valle, ruzzolando. Gli edifici apparivano nuovi e luminosi anche visti da vicino. Le loro mura balenavano di riflessi. Su ogni lato c'era vegetazione - macchie di arbusti verde-rossastri, alberi giallo-verdi carichi di frutti rossi e purpurei.

Mentre la fame gli ruggiva nello stomaco, Jenner si diresse verso il più vicino albero da frutta. Visto da poca distanza l'albero aveva un aspetto secco, friabile. Comunque, il grosso frutto rosso che strappò dal ramo più basso era turgido e succoso.

Mentre lo portava alla bocca, Jenner ricordò di essere stato avvertito - durante il suo periodo di addestramento - di non assaggiare niente su Marte fino a quando non fosse stato analizzato chimicamente. Ma quello era un consiglio privo di senso per un uomo il cui equipaggiamento chimico era rappresentato solo dal suo corpo.

Tuttavia, la possibilità d'un pericolo lo rese cauto. Diede il primo morso con estrema cautela. Lo sentì amaro sulla lingua e si affrettò a sputare il boccone. Un po’ del succo che gli era rimasto in bocca gli bruciò le gengive. Ne sentì il fuoco, e barcollò colto dalla nausea. I suoi muscoli presero a contrarsi spasmodicamente; fu costretto a distendersi sul marmo per impedirsi di cadere. Dopo quelle che a Jenner parvero ore, lo spaventoso tremore lasciò d'un tratto il suo corpo e la vista gli ritornò.

Alla fine il dolore lo lasciò, e lentamente poté rilassarsi. Una lieve brezza fece frusciare le foglie secche. Gli alberi vicini risposero a quel lieve fruscio, e Jenner fu colpito dal fatto che laggiù nella valle era soltanto un sussurro rispetto a quello che aveva soffiato sulla pianura desertica oltre il cerchio delle montagne.

Adesso, non c'era più nessun suono. D'un tratto Jenner ricordò il fischio acuto continuamente mutevole che aveva udito prima. Giacque lì immobile, tendendo l'orecchio: ma intorno a lui c'era soltanto l'occasionale fruscio delle foglie. Quell'acuto, sgradevole stridio era cessato. Si chiese se non fosse stato un segnale d'allarme per avvertire gli abitanti del villaggio del suo avvicinarsi.

Colto dall'ansia, si alzò in piedi e si frugò addosso cercando la pistola. Una sensazione di disastro lo percorse come una scossa elettrica. La pistola non c'era più. La sua mente era vuota, poi ricordò vagamente di averla persa più d'una settimana prima. Si guardò intorno, inquieto, ma non c'era alcun segno di creature viventi. Fece appello alle proprie forze. Non poteva andarsene, poiché non c'era nessun posto dove andare. Se fosse stato necessario, avrebbe lottato fino alla morte per rimanere nel villaggio.

Con molta cautela, Jenner bevve un sorso dal contenitore dell'acqua, inumidendosi le labbra screpolate e la lingua gonfia. Poi riavvitò il tappo e riprese ad avanzare attraverso il doppio filare di alberi verso l'edificio più vicino. Descrisse un ampio cerchio per osservarlo da parecchi punti diversi. Su un lato un arco ampio e basso si apriva sull'interno. Attraverso l'arco riuscì a stento a distinguere il lucido riflesso d'un pavimento di marmo.

Jenner esplorò gli edifici da fuori, sempre mantenendo una riguardosa distanza fra sé e un qualunque ingresso. Non vide nessun segno di vita animale. Raggiunse il lato più lontano della piattaforma di marmo sulla quale il villaggio era costruito, poi tornò indietro con passo deciso. Era giunto il momento di esplorare gli interni.

Scelse uno dei quattro edifici a forma di torre. Quando arrivò a circa quattro metri da esso, si avvide che avrebbe dovuto chinarsi per entrare.

Per un attimo, le implicazioni di questo fatto lo fecero fermare. Quegli edifici erano stati costruiti per una forma di vita che doveva essere molto diversa da quella umana.

Riprese ad avanzare, si chinò ed entrò con riluttanza nell'edificio. Ogni muscolo del suo corpo era sotto tensione.

Si trovò in una stanza senza mobili. Tuttavia c'erano parecchie basse recinzioni di marmo che sporgevano da una parete ugualmente di marmo. Formavano un gruppo di scomparti larghi e bassi. E ogni scomparto aveva una sorta di truogolo scavato direttamente nel pavimento.

Nella seconda camera c'erano quattro piani inclinati di marmo, ognuno dei quali saliva fino a una piattaforma. Complessivamente c'erano quattro stanze, al pianterreno. Da una di esse una rampa circolare saliva di sopra, e sembrava condurre ad altre stanze su nella torre.

Jenner non esplorò il piano di sopra. L'iniziale paura di trovarsi faccia a faccia con una forma di vita aliena stava cedendo alla terrificante convinzione che non ne avrebbe trovata nessuna. Se non c'era nessuna forma di vita, questo significava che non c'era cibo o la possibilità di ottenerne. Colto da una fretta angosciosa, cominciò a correre da un edificio all'altro, gettando occhiate dentro le stanze silenziose, soffermandosi di tanto in tanto a lanciare richiami con voce rauca.

Alla fine non ebbe più nessun dubbio: era del tutto solo in un villaggio deserto su un pianeta senza vita, senza cibo, senz'acqua - salvo per la misera riserva nel suo contenitore - e senza speranza.

Si trovava nella quarta e più piccola stanza di uno degli edifici dalla torre, quando si rese conto di essere arrivato alla fine della sua ricerca. La stanza aveva un unico scomparto che sporgeva da una parete. Jenner, esausto, vi si distese. Doveva essersi addormentato all'istante.

Quando si svegliò fu subito conscio di due cose in rapida successione. La prima constatazione avvenne prima che aprisse gli occhi: il sibilo era tornato: alto e acuto, ondeggiava sulla soglia dell'udibilità.

La seconda fu che un sottile spruzzo di liquido veniva diretto verso di lui dal soffitto. Aveva un odore, sì, al quale lo specialista Jenner diede una sola annusata, prima di balzar fuori dalla stanza di corsa, tossendo, con gli occhi che gli lacrimavano, il volto che già gli bruciava per la reazione chimica. Agguantò il fazzoletto e prese a ripulirsi in fretta le parti esposte del viso e del corpo.

Si calmò un poco soltanto quando fu all'esterno, cercando affannosamente di capire cosa fosse successo.

Il villaggio pareva immutato.

Le foglie tremolavano ancora scosse da una lieve brezza. Il sole pareva in equilibrio sulla vetta di una montagna. Dalla sua posizione Jenner intuì che era di nuovo mattina e che lui doveva aver dormito una dozzina di ore. La luminosità bianca e vitrea avvolgeva tutta la valle. Seminascosti dagli alberi e dagli arbusti gli edifici riflettevano sprazzi di luce e parevano ondeggiare.

Quella, doveva essere un'oasi nello sconfinato deserto. Sì, era proprio un'oasi, rifletté cupamente Jenner, ma non per un essere umano. Per lui, con la sua frutta velenosa, assomigliava assai più a un miraggio… al supplizio di Tantalo.

Ritornò nell'edificio da cui era uscito e sbirciò cautamente all'interno della stanza in cui aveva dormito. Lo spruzzo del liquido acre era cessato. Non rimaneva la più piccola traccia di odore, e l'aria era fresca e pulita.

Attraversò la soglia con grande cautela, con la mezza intenzione di fare una prova. Gli era venuta in mente l'immagine d'una creatura marziana morta da molto tempo, distesa pigramente sul fondo dello scomparto, mentre una sostanza chimica rinfrescante le cospargeva il corpo. Il fatto che quella sostanza chimica fosse micidiale per gli uomini non faceva altro che sottolineare quanto fosse aliena, per l'uomo, la vita che era sorta su Marte. Ma pareva che vi fossero pochi dubbi sul motivo di quella pioggia del liquido acre: la creatura era abituata a farsi una doccia mattutina.

All'interno del «bagno», Jenner si calò dentro lo scomparto cominciando dai piedi. Quando vi ebbe infilato tutte le gambe fino ai fianchi, dal soffitto in apparenza compatto giunse uno spruzzo d'un liquido volatile, giallastro, che gli irrorò il corpo. In tutta fretta Jenner si tirò fuor dallo scomparto. Il getto cessò con la stessa repentinità con cui era cominciato.

Provò un'altra volta, per essere davvero sicuro che si trattasse d'un procedimento automatico. Il getto entrò in funzione, poi si spense.

Le labbra gonfie per la sete di Jenner si schiusero per l'eccitazione. «Se c'è un procedimento automatico» pensò, «potrebbero essercene degli altri».

Respirando affannosamente corse nella stanza esterna. Con cautela spinse le gambe dentro uno dei due scomparti. Nell'istante in cui i suoi fianchi furono all'interno, una brodaglia fumante riempì il truogolo accanto alla parete.

Jenner fissò quella roba untuosa affascinato e inorridito - cibo… e anche bevanda. Ricordò il frutto velenoso, e provò ripugnanza, ma si costrinse a chinarsi e a infilare un dito in quella sostanza calda e umida. Lo portò poi gocciolante alla bocca. Era quasi senza sapore, e aveva la consistenza di fibra di legno bollita. Gli colò vischiosa sul collo. Gli occhi cominciarono a lacrimargli e le labbra gli si ritrassero convulsamente. Si rese conto che stava per sentirsi male, e corse verso la porta esterna… ma non riuscì ad arrivare in tempo.

Quando finalmente si trovò fuori, si sentiva molle e indicibilmente snervato. In quello stato mentale, depresso, si accorse di nuovo del fischio acuto.

Si stupì di aver potuto ignorare quello stridulo raschiare anche per pochi minuti. Scrutò intorno a sé cercando di stabilirne l'origine, ma non pareva averne nessuna. Tutte le volte che lui si avvicinava a un punto dove il sibilo pareva più intenso, questo si attenuava o si spostava, magari sul lato più lontano del villaggio. Cercò d'immaginare cosa potesse volere una cultura aliena da un suono come quello, capace di frantumare la mente… anche se, naturalmente, non era detto che per loro fosse necessariamente spiacevole.

Si fermò e fece schioccare le dita mentre un'idea assurda, ma nondimeno plausibile, gli si formava in testa. Poteva esser musica!

Si baloccò con quell'idea, cercando d'immaginarsi il villaggio come doveva essere stato molto tempo prima. Era possibile che qui un popolo amante della musica avesse svolto i propri compiti giornalieri con l'accompagnamento di quello che per loro doveva essere stato un meraviglioso tema musicale…

Quell'orrendo sibilo raschiante continuò interminabile, aumentando e calando. Jenner cercò di frapporre degli edifici fra sé e quel suono. Cercò rifugio in varie stanze, sperando che almeno una fosse a prova di suono. Nessuna lo era. Il fischio lo seguiva dovunque andasse.

Si ritirò nel deserto e dovette arrampicarsi fino alla metà di uno dei pendii prima che il fischio fosse abbastanza basso da non dargli più nessun fastidio. Alla fine, senza fiato, ma infinitamente sollevato, si lasciò cadere sulla sabbia e pensò con la mente vuota: E adesso?

La scena che si stendeva davanti a lui aveva in sé le qualità sia del paradiso che dell'inferno. Adesso gli era perfino troppo familiare: le sabbie rosse, le dune petrose, il piccolo villaggio alieno che prometteva tanto e dava così poco.

Jenner abbassò lo sguardo su di essi con gli occhi febbricitanti e si passò la lingua disseccata sulle labbra screpolate e aride. Sapeva di essere un uomo morto, a meno che non fosse riuscito ad alterare le macchine automatiche che producevano il cibo e dovevano essere nascoste da qualche parte dentro le pareti e sotto i pavimenti degli edifici.

Nei tempi antichi, uno scampolo di civiltà marziana doveva essere sopravvissuto laggiù, in quel villaggio. Gli abitanti erano morti, ma il villaggio era sopravvissuto, tenendosi sgombro dalle sabbie, in grado di offrire rifugio a qualsiasi marziano vi fosse arrivato. Ma non c'erano più marziani. C'era soltanto Bill Jenner, pilota della prima nave a razzo mai atterrata su Marte.

Doveva assolutamente indurre il villaggio a produrre cibo e bevande che lui fosse in grado di assimilare. Senza strumenti, salvo le sue mani, con quasi nessuna conoscenza di chimica, doveva costringerlo a cambiare le sue abitudini.

In preda a una viva tensione sollevò il contenitore d'acqua. Bevette un altro sorso e combatté la stessa cupa lotta per impedirsi d'inghiottire fino all'ultima goccia. E una volta che ebbe vinto questa nuova battaglia, si alzò in piedi e cominciò a scendere il pendio.

Calcolò che avrebbe potuto tener duro non più di tre giorni. Questo, e non più, era il periodo di cui disponeva per conquistare il villaggio.

Si trovava già fra gli alberi, quando d'un tratto si rese conto che la «musica» era cessata. Sollevato, si chinò sopra un piccolo arbusto, lo afferrò saldamente… e tirò.

L'arbusto venne via facilmente, e un frammento di marmo rimase attaccato ad esso. Jenner lo fissò, constatando, con viva sorpresa, di essersi sbagliato pensando che la pianta semplicemente sbucasse fuori attraverso un buco del marmo. No, l'arbusto era appiccicato alla sua superficie. Poi, notò qualcos'altro: l'arbusto non aveva radici. Quasi istintivamente, Jenner guardò giù verso il punto dal quale aveva strappato il pezzo di marmo insieme alla pianta. Là c'era sabbia.

Lasciò cadere l'arbusto, si lasciò scivolare sulle ginocchia e affondò le dita nella sabbia. La sabbia smossa fluì tra esse. Jenner tornò ad affondare le dita in profondità, usando tutte le sue forze per costringere il braccio e la mano a scendere il più possibile, c'era sabbia, soltanto sabbia.

Si alzò in piedi e freneticamente strappò un altro arbusto. Anche questo venne via facilmente, portando con sé un frammento di marmo. Non aveva radici e là sotto, dov'era stato fino a un attimo prima. C'era soltanto sabbia.

Colto da una sorta d'irriflessiva incredulità, Jenner corse accanto a un albero di frutta e gli diede uno strattone. Vi fu una momentanea resistenza, e poi il marmo sul quale si ergeva si ruppe, sollevandosi lentamente in aria. L'albero si abbatté al suolo con un sibilo e un crepitio quando i suoi rami e le foglie secche si ruppero andando in mille frantumi. Sotto al punto dove si era trovato, c'era sabbia.

Sabbia dappertutto. Una città costruita sulla sabbia. Marte, pianeta di sabbia. Questo non era completamente vero, naturalmente. Una vegetazione stagionale era stata osservata vicino alle calotte polari. Però con l'avvento dell'estate soltanto la più resistente riusciva in qualche modo a sopravvivere. Nelle intenzioni, la nave a razzo avrebbe dovuto atterrare accanto ad uno di quei mari bassi e privi di maree.

Venendo giù priva di controllo, la nave aveva distrutto qualcosa di più di se stessa. Aveva distrutto la possibilità di vita dell'unico sopravvissuto al viaggio.

Jenner uscì lentamente dal suo stupore. Poi gli venne in mente una cosa. Raccolse uno degli arbusti che aveva già strappato, puntò i piedi contro il marmo al quale era attaccato, e tirò, dapprima con delicatezza, poi con forza crescente.

Finalmente il frammento di marmo venne via, ma non c'erano dubbi che i due facevano parte d'un tutto. L'arbusto cresceva dal marmo.

Marmo. Jenner s'inginocchiò accanto a uno dei fori da cui aveva strappato un pezzo di marmo, e si chinò sopra una sezione adiacente. Era molto porosa - roccia calcarea con tutta probabilità, ma niente affatto autentico marmo. Quando allungò la mano verso di essa, con l'intenzione di staccarne un pezzetto, la sezione cambiò colore. Stupefatto, Jenner ritrasse la mano. Intorno alla spaccatura la pietra stava diventando d'un vivido color arancio. Jenner la studiò, incerto, poi si azzardò a toccarla.

Fu come se avesse affondato le dita in un acido cauterizzante. Provò un dolore acuto, pungente e bruciante. Con un rantolo, Jenner sobbalzò e ritrasse di scatto la mano.

Quell'intensa, implacabile sofferenza lo fece sentir debole. Barcollò e gemette, stringendo le dita ferite al corpo. Quando finalmente la sofferenza cessò, e poté dare un'occhiata alle dita, vide che la pelle si era staccata e già si erano formate delle vesciche sanguinolente. Con aria cupa Jenner fissò la spaccatura nella pietra. I bordi erano rimasti di un arancio brillante.

Il villaggio era sul chi-vive, pronto a difendersi da ulteriori aggressioni. D'un tratto, esausto, Jenner strisciò fino all'ombra di un albero. C'era una sola possibile conclusione da trarre, da ciò che era successo, e quasi sfidava il senso comune. Quel villaggio solitario era vivo.

Mentre giaceva lì, Jenner cercò d'immaginare una grande massa di sostanza vivente che cresceva assumendo la forma di edifici, che si modificava per adattarsi a un'altra forma di vita, accettando il ruolo di servitore nel più ampio significato della parola.

Ma se era pronta a servire una razza, perché non avrebbe potuto fare la stessa cosa con un'altra? Se aveva potuto adattarsi ai marziani, perché non avrebbe potuto farlo con gli esseri umani?

Ci sarebbero state difficoltà, naturalmente. Immaginò, con un sospiro di stanchezza, che certi elementi essenziali non sarebbero stati disponibili. L'ossigeno per l'acqua avrebbe potuto essere estratto dall'atmosfera… migliaia di composti potevano venir prodotti con gli elementi della sabbia… Ma anche se per lui avrebbe voluto dire la morte, se non fosse riuscito a trovare una soluzione, piombò nel sonno proprio mentre pensava quale mai essa avrebbe potuto essere.

Quando si svegliò era buio pesto.

Jenner si alzò, a fatica, in piedi. Sentì un'insolita tensione ai muscoli che lo mise in allarme. S'inumidì le labbra con una goccia d'acqua del contenitore, e si avviò barcollando verso l'ingresso dell'edificio più vicino. Salvo per il raschiare delle sue scarpe sul «marmo», il silenzio gravava pesante su ogni cosa.

Si fermò di botto, ascoltò e guardò. Il vento era cessato. Non riusciva a vedere le montagne che cingevano la valle, ma gli edifici erano ancora vagamente visibili, ombre nere in un mondo di ombre.

Per la prima volta gli parve che, malgrado la sua nuova speranza, forse sarebbe stato meglio se fosse morto. Anche se fosse sopravvissuto, cosa mai poteva aspettarsi? Ricordava fin troppo bene quant'era stato difficile suscitare interesse per quel viaggio e raccogliere l'ingente somma di denaro richiesta. Ricordava i colossali problemi che era stato necessario risolvere per costruire la nave, e alcuni degli uomini che li avevano risolti erano sepolti in qualche punto imprecisato del deserto marziano.

Avrebbero potuto passare altri vent'anni prima che un'altra nave tentasse di raggiungere dalla Terra il solo pianeta del sistema solare che aveva dato segni di poter sostenere la vita.

Durante quegli incalcolabili giorni e notti, durante tutti quegli anni, sarebbe rimasto lì solo. Quello era il massimo che poteva sperare… se fosse sopravvissuto. Mentre si avvicinava con passo insicuro a una piattaforma dentro una delle stanze. Jenner considerò un altro problema: come si faceva a informare un villaggio vivente che avrebbe dovuto alterare i propri processi? In un certo senso, il villaggio doveva aver già capito che aveva un nuovo inquilino.

In che modo lui avrebbe potuto fargli capire che aveva bisogno di cibo di una diversa composizione chimica rispetto a quella che aveva servito in passato; che gli piaceva, sì, la musica, ma con un'armonia del tutto diversa; e che ogni mattina una doccia gli avrebbe fatto piacere - ma di acqua, non di liquido volatile e corrosivo?

Si appisolò tra convulsi pensieri, e fu il sonno di un uomo ammalato. Si svegliò due volte, con le labbra in fiamme, gli occhi che gli bruciavano, il corpo inondato di sudore. Parecchie volte riprese conoscenza, sorpreso dal suono aspro della sua stessa voce che gridava contro la notte per la rabbia e la paura.

E indovinò, allora, che stava morendo.

Trascorse le lunghe ore del buio sussultando, contorcendosi, rigirandosi, intorpidito da continue ondate di calore. Quando arrivò la luce del mattino, fu vagamente sorpreso per il fatto di essere ancora vivo. In preda a una viva irrequietezza scese dalla piattaforma e andò all'ingresso.

Soffiava un vento gelido e pungente, che però diede un po’ di sollievo al suo volto arroventato. Si chiese se ci fossero abbastanza pneumococchi nel suo sangue da fargli prendere una polmonite. Decise di no.

Qualche istante dopo, cominciò a rabbrividire. Tornò all'interno della casa e per la prima volta osservò che, malgrado l'ingresso fosse privo di porta, il vento non s'ingolfava dentro l'edificio. Le stanze erano fredde, ma là dentro non c'erano correnti d'aria.

Ciò diede inizio dentro la sua mente a un'associazione d'idee: da dove era venuto quel terribile calore? Si avvicinò barcollando alla piattaforma sulla quale aveva trascorso la notte, e vi salì sopra. Pochi istanti dopo ansimava e sudava a causa d'una temperatura di cinquanta gradi e oltre.

Scese subito dalla piattaforma, scosso a causa della propria stupidità. Calcolò di aver spremuto fuori, su quel letto simile a una fornace, due o tre litri d'acqua dal suo corpo inaridito.

Quel villaggio non era per gli esseri umani. Qui, perfino i letti erano riscaldati per delle creature che avevano necessità di temperature molto superiori a quelle che gli uomini trovavano confortevoli.

Jenner passò la maggior parte della giornata all'ombra di un grande albero. Si sentiva esausto, e solo di tanto in tanto riusciva a ricordare che aveva un problema. Quando il rauco fischio ricominciò, a tutta prima provò fastidio, ma era troppo stanco per allontanarsi da esso. C'erano lunghi periodi durante i quali l'udiva appena, talmente erano offuscati i suoi sensi.

Quel pomeriggio sul tardi si ricordò degli arbusti e degli alberi che aveva strappato dal suolo il giorno prima e si chiese quale fine avessero fatto. S'inumidì la lingua gonfia con le ultime gocce d'acqua del suo contenitore, si tirò in qualche modo in piedi, e andò alla ricerca dei loro resti disseccati.

Non li trovò. Non riuscì neppure a ritrovare i fori che aveva fatto strappandoli. Il villaggio aveva assorbito il tessuto morto dentro di sé e aveva riparato ogni guasto subito dal suo «corpo».

Questo galvanizzò Jenner. Ricominciò a pensare a… sì, alle mutazioni, ai riadattamenti genetici, alle forme di vita che si adattavano a nuovi ambienti. C'erano state lezioni su questi argomenti prima che la nave lasciasse la Terra, discorsi piuttosto generici, ma in grado di mettere gli esploratori al corrente dei problemi che gli uomini avrebbero potuto incontrare su un pianeta alieno.

Il principio fondamentale era molto semplice: adattarsi o morire.

Il villaggio doveva adattarsi a lui. Dubitava di essere in grado di danneggiarlo seriamente, ma poteva sempre provarci. La sua necessità di sopravvivenza doveva esser posta su una base drastica e ostile quanto l'avversario che si trovava ad affrontare.

Freneticamente Jenner cominciò a frugarsi nelle tasche. Prima di lasciare la nave a razzo si era caricato di ogni genere di attrezzature portatili. Un coltello a serramanico, una tazza metallica pieghevole, una radio a microcircuiti stampati, una minuscola superbatteria che poteva essere ricaricata facendo girare una rotella inserita in essa… per questo aveva portato con sé, insieme ad altre cose, anche un potente accendino elettrico.

Jenner collegò la batteria all'accendino e grattò con l'estremità arroventata la superficie del «marmo». La reazione fu fulminea. Questa volta la sostanza divenne d'un rabbioso color purpureo. Quando un'ampia zona del pavimento ebbe cambiato colore, Jenner si diresse verso il più vicino scomparto munito di truogolo, entrandovi quel tanto che bastava ad attivarlo.

Vi fu un sensibile ritardo. Quando finalmente il cibo fluì a riempire il truogolo, fu chiaro che il villaggio vivente si era reso conto del motivo per cui lui aveva agito in quel modo. Il cibo era d'un pallido color crema, mentre in precedenza era sempre stato grigio scuro.

Jenner v'infilò dentro un dito, ma lo ritrasse con un urlo e se l'asciugò affannosamente. Il dito continuò a bruciargli per alquanti minuti. La domanda vitale era questa: il villaggio gli aveva deliberatamente offerto del cibo per lui mortale, oppure stava compiendo tentativi a caso per soddisfare la sua richiesta, senza sapere ciò che lui poteva mangiare?

Decise di dargli un'altra possibilità, ed entrò nello scomparto adiacente. Questa volta la materia granulosa che sgorgò fuori era più gialla. Non gli bruciò il dito, ma Jenner l'assaggiò una volta sola e la sputò. Ebbe la sensazione che gli fosse stata offerta una zuppa fatta d'un miscuglio untuoso di argilla e benzina.

Adesso aveva sete, e il suo bisogno era accentuato dallo spiacevole sapore che gli era rimasto in bocca. Disperato, corse fuori e fece a pezzi il contenitore dell'acqua, cercando la poca umidità ancora presente all'interno. Annaspando per la fretta, versò alcune gocce del prezioso liquido sul pavimento del cortile. Si stese bocconi per leccarle.

Mezzo minuto più tardi stava ancora leccando, e c'era ancora acqua.

Quel fatto fece improvvisamente breccia nella sua mente. Si rialzò e fissò meravigliato le gocce d'acqua che luccicavano sulla pietra liscia. Mentre guardava, un'altra goccia fu spremuta da quella superficie in apparenza solida, luccicando alla luce del sole al tramonto.

Jenner si chinò e con la punta della lingua succhiò ogni goccia visibile. Rimase molto a lungo con la bocca premuta contro il «marmo», suggendo ogni singola molecola d'acqua che il villaggio gli offriva.

Il bianco sole ardente scomparve dietro una montagna. Cadde la notte, e fu come se un nero sipario fosse calato. L'aria divenne fresca, poi ghiacciata. Jenner rabbrividì mentre il vento sibilava attraverso i suoi indumenti a brandelli. Ma ciò che alla fine lo costrinse a fermarsi fu il collasso della superficie dalla quale aveva bevuto.

Jenner si rialzò sorpreso, e nel buio tastò con cautela la pietra. Si era proprio sbriciolata. Era evidente che la sostanza aveva ceduto tutta l'acqua che aveva disponibile e nel far questo si era disintegrata. Calcolò di aver bevuto in tutto tre decilitri d'acqua.

Era una convincente dimostrazione della volontà del villaggio di fargli piacere, ma c'era anche un'altra implicazione, assai meno soddisfacente. Se il villaggio doveva distruggere una parte di se stesso tutte le volte che gli dava da bere, allora era chiaro che le scorte non erano illimitate.

Jenner entrò di corsa nell'edificio più vicino, salì su una piattaforma… e ne ridiscese subito in fretta quando il calore lo investì. Aspettò per dare a quell'intelligenza la possibilità di rendersi conto che lui voleva un cambiamento, poi tornò a distendersi. Il calore era intenso come prima.

Ci rinunciò, poiché era troppo stanco per insistere e troppo intorpidito per pensare a un modo che potesse far sapere al villaggio della sua necessità d'una temperatura assai più bassa in camera da letto. Dormì disteso sul pavimento con l'inquietante convinzione che il villaggio non potesse sostentarlo a lungo. Si svegliò molte volte durante la notte, pensando: «Non c'è abbastanza acqua. Non importa quanta buona volontà ci metta…» Ricadeva nel sonno e tornava ancora a svegliarsi, sempre più teso e infelice.

Tuttavia, la mattina dopo lo trovò, sia pure per breve tempo, pieno di vivacità: tutta la ferrea determinazione gli era tornata… quella volontà d'acciaio che l'aveva spinto per almeno cinquecento miglia attraverso un deserto sconosciuto.

Si diresse verso il truogolo più vicino. Questa volta, dopo che l'ebbe attivato, vi fu una pausa di più d'un minuto; poi all'incirca un quantitativo d'acqua pari sì e no a due dita in un bicchiere formò una macchia bagnata sul fondo.

Jenner la leccò fino a prosciugarla, poi aspettò pieno di speranza che ne arrivasse dell'altra. Quando l'acqua non ritornò, rifletté cupamente che da qualche parte nel villaggio un intero gruppo di cellule doveva essersi disgregato liberando l'acqua per lui.

Allora decise che toccava all'essere umano, in grado di muoversi, trovare una nuova sorgente d'acqua per il villaggio, che muoversi non poteva.

Nel frattempo, naturalmente, il villaggio avrebbe dovuto continuare a tenerlo in vita, fino a quando lui non avesse indagato tutte le possibilità. Ciò significava, al di sopra di ogni altra cosa, che lui doveva ricevere un po’ di cibo per tenersi in forze mentre si guardava intorno.

Cominciò a frugarsi in tasca. Quand'era giunto quasi alla fine della sua scorta di cibo, ne aveva conservato dei pezzetti avvolti in lembi di tessuto. Questi gli si erano sbriciolati nelle tasche e lui frugandovi spesso durante quei giorni nel deserto, ne aveva recuperato gran parte. Adesso, strappando anche le cuciture, riuscì a tirar fuori minuscoli frammenti di carne e biscotto, palline d'unto raggrumato e altre briciole inidentificabili.

Facendo molta attenzione si sporse sopra lo scomparto accanto a lui, e depositò quei frammenti dentro il truogolo all'interno. Il villaggio non sarebbe stato in grado di offrirgli niente più che un ragionevole facsimile. Se l'aver rovesciato poche gocce d'acqua sulla pavimentazione del cortile aveva potuto renderlo consapevole del suo bisogno d'acqua, allora un'offerta analoga poteva dargli l'indizio indispensabile per conoscere la natura chimica di ciò che lui poteva mangiare.

Jenner aspettò, poi entrò nel secondo scomparto e attivò anche questo. Circa mezzo litro d'una sostanza densa e cremosa sgorgò sul fondo del truogolo. La scarsa quantità pareva dimostrare che forse conteneva dell'acqua.

L'assaggiò. Aveva un pungente sapore di muffa e di stantio. Ed era asciutta, quasi come farina… ma il suo stomaco non la rifiutò.

Jenner mangiò lentamente, acutamente conscio che in momenti come quelli il villaggio lo aveva alla sua mercé. Lui non poteva in nessun modo esser sicuro che uno degli ingredienti del cibo non fosse un veleno ad azione lenta.

Quand'ebbe terminato di mangiare, andò a uno dei truogoli di un altro edificio. Si rifiutò di mangiare il cibo che venne fuori, ma attivò un altro truogolo ancora. Questa volta ottenne poche gocce d'acqua.

Era andato di proposito in uno degli edifici a forma di torre. Adesso cominciò a salire la rampa che conduceva al piano di sopra. Si fermò solo brevemente nella stanza in cui arrivò, siccome aveva scoperto che si trattava di camere per dormire supplementari. C'erano le consuete piattaforme, in un gruppo di tre.

Quello che l'interessò di più fu la constatazione che la rampa circolare continuava a salire verso l'alto. Prima, la rampa lo condusse a una stanza piccola, la quale non pareva avere nessun motivo particolare per esistere. Poi la rampa riprendeva a salire fino alla cima della torre, a oltre venti metri dal livello del suolo. La torre era abbastanza alta da consentirgli di vedere al di là dei rilievi circostanti. Si era già convinto che fosse così, ma finora era stato troppo debole per intraprendere quella salita. Adesso, aguzzò gli occhi in ogni direzione verso l'orizzonte. Quasi subito la speranza che l'aveva condotto fin lassù scomparve.

Lo spettacolo era di un'indicibile desolazione. Fin dove poteva spaziare con lo sguardo, vedeva una distesa arida, e la sabbia alzata dal vento cancellava dovunque la linea divisoria fra la terra e il cielo.

Jenner fissò la scena con un soffocante senso di disperazione. Se anche là fuori, da qualche parte, c'era un mare marziano, era al di là delle sue possibilità raggiungerlo.

Strinse i pugni, infuriandosi contro il suo destino che adesso appariva inevitabile. Aveva sperato, nella peggiore delle ipotesi, di trovarsi in una regione montagnosa. I mari e le montagne erano di solito le due fonti principali di acqua. Avrebbe dovuto sapere, naturalmente, che c'erano ben poche montagne su Marte. Sarebbe stata una ben straordinaria coincidenza se si fosse imbattuto in una vera catena montagnosa. La sua collera si smorzò, poiché non aveva forze sufficienti a sostenere una qualunque emozione. In preda a un crescente torpore ridiscese la rampa.

E qui, il suo vago progetto di aiutare il villaggio ad adattarsi a lui ebbe fine.

I giorni passarono, ma di quanti fossero non aveva la più vaga idea. Tutte le volte che andava a mangiare gli veniva elemosinata una quantità di acqua sempre più piccola. Jenner continuava a dirsi che ogni suo pasto sarebbe stato l'ultimo. Era irragionevole da parte sua aspettarsi che il villaggio si autodistruggesse, quando il suo destino era una cosa certa.

E, peggio ancora, stava diventando sempre più chiaro che il cibo non era buono per lui. Aveva fuorviato il villaggio circa i suoi effettivi bisogni, fornendogli dei campioni stantii, forse perfino guasti, prolungando così la propria agonia. A volte, dopo aver mangiato, Jenner si sentiva stordito per ore. Con troppa frequenza, la testa gli faceva male e il suo corpo tremava per la febbre.

Il villaggio faceva quello che poteva. Il resto toccava a lui, ma lui non poteva adattarsi a una imitazione del cibo terrestre.

Per due giorni stette troppo male perfino per avvicinarsi a uno dei truogoli. Per ore e ore giacque sul pavimento. A un certo punto della seconda notte il dolore del suo corpo divenne così tremendo che prese una disperata decisione.

«Se riuscissi ad arrivare a una piattaforma» si disse, «basterà il calore ad uccidermi. E il villaggio, nell'assorbire il mio corpo, riavrà una parte dell'acqua che ha perso».

Impiegò quasi un'ora a strisciare laboriosamente su per la rampa della più vicina piattaforma, e quando alla fine ci fu riuscito, giacque immobile come qualcuno già morto. Il suo ultimo pensiero cosciente fu: «Carissimi amici… sto arrivando».

L'illusione fu così perfetta che gli parve, per qualche istante, di essere tornato nella cabina di comando della nave a razzo, e tutt'intorno a lui c'erano i suoi compagni di un tempo.

Con un sospiro di sollievo Jenner sprofondò in un sonno senza sogni.

Si risvegliò al suono d'un violino. Era una musica dolce e malinconica che parlava dell'ascesa e della caduta d'una razza da lungo tempo estinta.

Jenner ascoltò per un po’, quindi, con un'improvvisa eccitazione, si rese conto della verità. Quello… era il fischio, incredibilmente cambiato. Il villaggio aveva adattato a lui la sua musica!

Altri fenomeni sensoriali s'insinuarono gradatamente dentro di lui. Il calore esalato dalla piattaforma gli parve piacevole, niente affatto bruciante. Provò la sensazione d'un meraviglioso benessere fisico. Con vivo entusiasmo ridiscese la rampa e si avvicinò al più vicino scomparto per il cibo. Mentre strisciava in avanti col naso vicino al fondo, il truogolo si riempì d'un miscuglio fumante. L'odore era così ricco e piacevole che vi affondò dentro la faccia e l'avidità con cui prese a nutrirsi glielo fece schizzare tutt'intorno. Aveva il sapore d'una zuppa densa e carnosa, ed era calda e appetitosa per le labbra e la lingua. Quando l'ebbe inghiottita tutta, per la prima volta non sentì il bisogno di bere acqua.

«Ho vinto!» pensò Jenner. «Il villaggio ha trovato il modo!»

Dopo un po’, si ricordò di qualcosa e strisciò fino alla stanza da bagno. Cautamente, tenendo d'occhio il soffitto, entrò nello scomparto della doccia, muovendosi a ritroso. Gli spruzzi gialli piovvero giù, freschi e deliziosi.

Estatico, Jenner agitò la sua coda lunga due metri e sollevò il lungo muso per consentire ai sottili getti di liquido di lavar via le impurità del cibo rimaste appiccicate ai suoi denti aguzzi.

Poi uscì fuori ancheggiando per crogiolarsi al sole e bearsi di quella musica senza tempo.

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HI!!! Happy 1st of August!!! Here’s a good news: the first book of Gravity Level for Éditions Sarbacane in France la almost done, nearly ready to be printed!!!
Let’s celebrate with our beloved babies!!
Ibu
Vikt
Pwa
Waka
Bek !!!
I can’t wait you to read their adventures!!!!


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Ellen Ripley (Sigourney Weaver in Alien, 1979)

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Prometheus (directed by Ridley Scott, 2012)

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Alien’s mouth

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Dr. Elizabeth Shaw alias Noomi Rapace (Prometheus,2012)

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Ellen Ripley alias Sigourney Weaver (Aliens, 1986)

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